Le imperfezioni come emblema della nostra umana fragilità. Intervista a Pietro Roberto Goisis

Siamo esseri umani caratterizzati da un senso di vulnerabilità che spesso e volentieri facciamo fatica ad accettare perché ci fa sentire fragili ed imperfetti.

Durante il corso della nostra esistenza siamo ossessionati dal concetto di perfezione che ci tormentano inevitabilmente. Per perseguirli rischiamo di rimanere prigionieri di spirali che siamo noi stessi a creare.  Eppure basterebbe solamente accettare le imperfezioni siano patti del nostro multisfaccettato mondo interiore e non.

Accettarle è il primo passo per imparare a convivere con esse tanto da tramutarle in veri e propri punti di forza dai quali ripartire ad abitare il mondo interiore e quello nel quale ci muoviamo quotidianamente in maniera frenetica e caotica. Questi insegnamenti emergono dalla lettura di “Noi imperfetti. Quando pensiamo di non farcela” del psicoanalista e scrittore Pietro Roberto Goisis, edito da Enrico Damiani.

Questo libro scritto con un linguaggio semplice e lineare immerge il lettore nell’esplorazione delle proprie imperfezioni invitandolo ad acquisire un’inedita consapevolezza di esse. Attraverso testimonianze, esperienze di vita e aneddoti Goisis ci invita ad apprezzare il concetto inedito dell’armonia della bellezza che dobbiamo solo imparare a riconoscere nell’essenza del nostro essere, come espressione dell’autenticità e della semplicità.

Il libro “Noi imperfetti” di Pietro Roberto Goisis ci fornisce tanti spunti di riflessione per una narrazione nuova e autentica di ciò che siamo davvero. Una lettura consigliatissima che riguarda tutti quanti e che infonde tanto ottimismo, coraggio e voglia di cambiamento e rinnovamento. Di com’è nata l’idea di trattare la tematica delle imperfezioni, di dipendenza e di cosa  e come imparare dai propri insuccessi conversiamo con lo psicoanalista Pietro Roberto Goisis in questa intervista.

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro che affronta la tematica dell’imperfezione in tutte le sue sfaccettature?

Lo stimolo di partenza è stata la nascita dalla mia prima nipotina, il momento in cui, otto anni fa, sono diventato nonno. Proprio nei primissimi giorni della sua vita, tenendola teneramente e con timore in braccio, ho percepito con pienezza il concetto di fragilità, ma soprattutto quello di inesorabile e totale dipendenza. Ho così pensato che la madre di tutte le nostre cosiddette debolezze e imperfezioni si collocasse proprio nell’attimo in cui veniamo al mondo. E da come viviamo e replichiamo quel momento. Da lì è partito il viaggio. Poi, come in ogni buon viaggio, i percorsi e i passaggi sono venuti proprio viaggiando.

Come possiamo definire le nostre imperfezioni?

L’emblema della nostra umanissima fragilità. La nostra più intima bellezza.

Esiste un segreto per imparare a convivere con esse?

Non viverle come debolezze e imperfezioni, ma delle nostre specialissime caratteristiche. Da non nascondere, mai.

Qual è il ruolo dei genitori nel percorso di accettazione delle imperfezioni degli adolescenti che vivono una delle fasi più cruciali della propria esistenza?

Ricordarsi sempre cosa è stata la propria adolescenza, le proprie fatiche e fragilità. Quindi cercare, sempre e nonostante le comprensibili difficoltà, di star loro vicini con amorevole gentilezza…e qualche legittima arrabbiatura…

Mi ha colpito nella lettura del suo libro il concetto di “armonia nella bellezza”. Può spiegarlo ai nostri lettori?

Mi piace pensare che invece di rincorrere disperatamente un concetto e un ideale di bellezza (artificiale e irrealizzabile) sia meglio e più realistico praticare la ricerca di armonia, che vuol dire sostanzialmente equilibrio naturale. Quindi armonia non significa perfezione assoluta, ma coesistenza di contrasti, tensioni e imperfezioni. Che diventano, in un equilibrio dinamico, affascinanti e fonti di ispirazione, tra gratitudine, connessioni e gentilezza che ci fanno apprezzare il mondo che ci circonda.

Esiste un margine di perfezione in un’imperfezione?

Certo, anche se è un ossimoro, possiamo parlare di “perfetta imperfezione”, che si realizza quando riusciamo ad accettare ed integrare le nostre imperfezioni. C’è anche chi le fa diventare un punto di forza o di caratterizzazione (penso a Winnie Harlow, famosa modella con la vitiligine).

Uno dei capitoli del suo libro è incentrato sulla tematica del fallimento. Quanto e in che misura gli insuccessi possono essere di fondamentale importanza nel nostro percorso evolutivo?

Dagli sbagli si impara, dice un noto proverbio. In realtà non sempre un fallimento nasce da uno sbaglio, a volte da eventi casuali e imprevisti. È un termine che associo a quello di vulnerabilità, perché ambedue attivano un’altra dote che è la resilienza. Chi si occupa di “fallimento”, come gli sportivi con le sconfitte, preferisce usare il termine “tappe di avvicinamento”. Che si realizza se siamo capaci di farne uno strumento di apprendimento, un gradino, un modo per essere più resilienti. Altra necessità è quella che deriva dal fare i conti con le frustrazioni, addestramento indispensabile se non vogliamo rischiare la fine di patologie narcisistiche o pseudo riparazioni tossicomaniche. Ma è pure molto importante uscire dalla retorica dell’insuccesso (“se li vivi e li accetti, poi avrai successo”), perché la vita è come una gara e non abbiamo nessuna garanzia di vincere, anzi, uno solo ci riesce. Quindi, in primis, cerchiamo di fare le cose bene e con impegno, essendo soddisfatti di noi stessi. Questa è la lezione più importante nel nostro percorso evolutivo. Diventare ciò che si è. Soprattutto ricordiamoci che fallire non è perdere, ma non scendere neppure in campo, non provarci!

Nel suo ruolo da psicoterapeuta cosa significa avere a che fare con le imperfezioni e le dipendenze dell’essere umano?

Come dico, tra il serio e il faceto, ogni psicoterapeuta trae lavoro dalle imperfezioni altrui, non parliamo dalle dipendenze, specie se chi le vive le sente come problematiche. In pratica, però, c’è una grande differenza tra le cosiddette imperfezioni (tra queste anche le buone dipendenze) e le situazioni dove il dipendere provoca malessere e stati disfunzionali. Nel primo caso il focus va sull’accettazione e integrazione delle nostre fragilità e debolezze (magari imparando a vederle e viverle diversamente). Nel secondo è necessario un lungo e delicato lavoro sulle radici della dipendenza e del nostro persistere in quella condizione.

A chi consiglia la lettura del suo libro?

Mi piacerebbe, come ha scritto Roberto Codini su Mescalina, nella prima recensione che è stata fatta, che questo libro possa essere letto da tutti, che ognuno possa trovarci qualcosa di utile e interessante. Una curiosità, uno stimolo. Perché non sognare?

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