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Intervista al Dott. Claude Moschelli.

Claude Moschelli ha un’esperienza trentennale nel campo della formazione professionale e della mediazione linguistica. In campo professionale ed imprenditoriale, coniuga...

IN QUESTO ARTICOLO

Claude Moschelli ha un’esperienza trentennale nel campo della formazione professionale e della mediazione linguistica. In campo professionale ed imprenditoriale, coniuga un’intensa attività di traduzione e formazione professionale, mirata alle abilità professionali e sviluppo personale di giovani, adulti, professionisti, manager, imprenditori.

Siamo davvero sicuri che il nostro modo di rapportarci al prossimo sia corretto? Che la nostra comunicazione sia efficace e porti ai traguardi a cui ambiamo? La comunicazione arriva ad ognuno di noi in modo del tutto differente: i più sensibili avvertono il tono di voce e da qui le emozioni partono, portando l’interlocutore non sempre ad essere compreso. Si sa bene che arrivare a comprendersi. reciprocamente, è molto difficile. Ciò nella quotidianità, in famiglia, tra amici è del tutto normale: le incomprensioni ci sono sempre state, ma poi si media, si trova un accordo dovuto anche al bene reciproco dei soggetti interessati. Ma in campo lavorativo, imprenditoriale, dove la comunicazione è alla base del successo, non ci sono i sentimenti a mediare. Non basta parlare per comunicare. Occorre saperlo fare in modo conscio e mirato. Il saper comunicare efficacemente, soprattutto nel settore delle pubbliche relazioni, Marketing e tutto ciò che gira attorno al settore commerciale, necessita di una mirata comunicazione; parliamo pure di persuasione: il sapere arrivare ai propri clienti con quel giusto dire che porti allo scopo prefissato, non è cosa semplice. Quanti di noi per poca stima di sè non riesce ad essere convincente, a comunicare, a rapportarsi nel proprio lavoro e uscirne vincente? Quanti vorrebbero crescere nella propria attività e seppur abbiano studi e talento non sanno rapportarsi nel giusto modo. Qui entra in gioco la figura del Coach: una figura professionale molto diffusa in questi ultimi decenni che può, tramite metodi consolidati, portare a conoscere le giuste mosse per comunicare al meglio…Per vendersi al meglio!  In fondo nel settore commerciale, soprattutto la vendita del prodotto è spesso correlata alla capacità di vendere sé stessi al fine da attrarre nuovi clienti. Argomentazioni che potrebbero protrarsi per ore; e cerchiamo di capire meglio il tutto insieme al Dott. Claude Moschelli. 

Conosciamolo meglio: Claude Moschelli ha un’esperienza trentennale nel campo della formazione professionale e della mediazione linguistica. In campo professionale ed imprenditoriale, coniuga un’intensa attività di traduzione e formazione professionale, mirata alle abilità professionali e sviluppo personale di giovani, adulti, professionisti, manager, imprenditori. Da anni, impegnato nello studio e nell’applicazione delle tecniche di sviluppo personale: comunicazione, motivazione, PNL, Leadership, Public Speaking, ecc. Bio completa

Un mondo il suo complesso che apre davvero tante possibilità di realizzazione. Ma quanto è difficile comunicare soprattutto con noi stessi; esisterà un metodo brevettato per imparare a comprenderci?  Sono proprio curiosa di saperlo.

Innanzitutto la ringrazio di esser qui, si Laurea in Scienze della Comunicazione c/o l’Università Popolare degli Studi di Milano discutendo la tesi “relazioni efficaci e persuasione nel processo decisionale – Neuromarketing e Leadership”. Da profana le chiedo: il saper persuadere, in campo lavorativo, un cliente è sempre eticamente corretto farlo? 

Partiamo da un presupposto: ogni essere umano “vende” in ogni contesto sociale, non solo in ambito lavorativo, ma anche in quello famigliare, nella cerchia dei propri amici o conoscenti e in ogni occasione. Infatti una mamma “vende” la sua idea di come stare al mondo al proprio figlio, un insegnante cerca di trasferire e quindi cerca di “vende” il suo bagaglio culturale ai propri allievi attraverso l’insegnamento, un allenatore sportivo “vende” le sue strategie tecnico-tattiche ai propri atleti… Non si può non vendere. Ogni “educatore” (nell’accezione più ampia del termine) lo fa e nel farlo cerca di essere il più persuasivo possibile. Naturalmente, la questione dell’eticità dipende da come viene utilizzata la persuasione e dagli obiettivi che ognuno si prefigge. Certo, il mondo è pieno di affabulatori, soprattutto sui social, che senza magari nessuna esperienza o scrupoli cercano di far passare un messaggio sbagliato. Persuadere, per come la vedo io, richiedere diverse fasi, tutte concomitanti:

·        Per prima cosa è entrare nella “mappa” del nostro interlocutore (la visione che egli ha del mondo), comprenderlo il più possibile SENZA GIUDICARE. Infatti in ogni giudizio si nasconde un pregiudizio. Tecnicamente si chiama “calibrazione”, è la fase in cui dovremmo ascoltare semplicemente, evitare di elaborare il proprio pensiero prima che l’altro finisca di parlare, capire anche facendo domande mirate. Nel mio campo c’è il detto “Non hai una seconda occasione per fare una buona prima impressione”. Il nostro cervello registra in una frazione di secondo la prima impressione, le apparenze, e ci vuole tempo per fargli cambiare idea;

la seconda fase consiste nel “ricalcare” il più possibile pensieri e stati d’animo dell’interlocutore, anche atteggiamenti e persino il modo di parlare. Questo non significa scimmiottare, imitare o assumere gli stessi identici atteggiamenti. Significa essere accettati come simili e, si sa, andiamo spontaneamente d’accordo con chi ci assomiglia, con chi sta sulla nostra stessa frequenza;
una volta superate le prime due fasi, se lo abbiamo fatto correttamente, è allora possibile fare entrare nella “nostra” mappa l’interlocutore mettendolo a suo agio nel condividere idee e riflessioni: in altri termini, siamo entrati nelle sue grazie e diventando “persuasivi”. Ma attenzione: questo presuppone una buona dose di eticità e, specie in campo lavorativo, persuadere un cliente può essere eticamente corretto se è basato sul rispetto ed il beneficio reciproco e sull’onestà. E prima ancora di cercare di persuadere un cliente, è essenziale capire i suoi bisogni e, soprattutto, i suoi desideri.
 Nella sua esperienza da formatore quali sono stati i muri mentali più difficili da abbattere? Qual è lo sbaglio più frequente che vede fare ai suoi clienti? 

Nel mio libro, specie nella prima parte, ho cercato di spiegare come sin da piccoli maturiamo una credenza, una convinzione, cosa ci spinge a comportarci in una determinata maniera piuttosto che un’altra di fronte a situazioni più disparate. Le convinzioni, specie se depotenzianti, sono muri mentali difficili da abbattere perché agiscono a livello inconscio, spontaneamente (inconsapevolmente). Il nostro comportamento è dettato da abitudini di pensiero, da azioni e decisioni ripetute più e più volte. L’errore più comune è quello di considerarsi “arrivati” dopo un certo numero di anni sul campo e che l’esperienza è la sola cosa che conti. Addirittura considerarsi i migliori nel proprio campo, spesso sottovalutando gli errori che giocoforza si commettono e i consigli altrui (anche dall’interno della propria azienda). Uno dei (tanti) errori è quello di considerare il cliente come entità “passiva”, al quale vendere tout court il proprio prodotto o servizio a volte con l’unico obiettivo di guadagnarci in termini economici: oggi le regole del gioco sono cambiate (lo spiego nel mio libro nella trattazione del Neomarketing). Oggi si vende al cervello del cliente… Si soddisfa un desiderio, non tanto un “bisogno”. Infine, la competitività aziendale passa attraverso l’aggiornamento delle proprie competenze ma, soprattutto, attraverso la formazione continua: investire parte del proprio tempo sul miglioramento psico-fisico. Essere “motivati” sul proprio lavoro crea una buona dose di entusiasmo e l’entusiasmo – si sa – è contagioso. Quando non si trova la forza dentro di sé o nei momenti di flessione, il mio consiglio è quello di rivolgersi ad un esperto, ad un “mental coach” …

 È impegnato nello studio e nell’applicazione delle tecniche di Sviluppo Personale (Comunicazione, Motivazione, Leadership, Neuromarketing, Public Speaking).  Mi soffermo sul Neuromarketing, in che consiste?

Il neuromarketing, combinazione di marketing e neuroscienze, è una disciplina emergente.  Dobbiamo ad Ale Smidts, direttore dell’Erasmus Center for Neu-roeconomics presso la Rotterdam School of Management, l’attribuzione, nel 2002, del nome neuromarketing alla neonata disciplina. Smidts la definì come l’insieme delle tecniche di identificazione dei meccanismi cerebrali orientate a una maggiore comprensione del comportamento del consumatore per l’elaborazione di più efficaci strategie di marketing. Contrariamente a quanto alcuni vorrebbero farci credere, non è una scienza. Si tratta solo di una lettura intelligente, orientata ed educata dei grandi testi scientifici sul funzionamento del cervello. Il marketing tradizionale consiste nell’adattare l’offerta alla domanda per evitare la sovrapproduzione. Consiste nel rilevare la domanda prima di progettare e produrre. Nel postmodernismo, poiché la produzione è abbondante, non soddisfiamo più i nostri bisogni ma i nostri desideri. La produzione deve quindi produrre ciò che il consumatore effettivamente desidera, come ampiamente illustrato nella prima parte di questo lavoro. Nel contesto di marketing postmoderno, quindi, il marketing della domanda viene meno: la spinta all’acquisto si basa su fattori preminentemente emozionali. Infatti, il cliente acquista quasi sempre spinto dall’emozione e giustifica poi l’acquisto con la ragione. La soddisfazione dei desideri prevale sulla soddisfazione dei bisogni, che sono già stati completamente soddisfatti. Ma l’individuazione di questa chiave di lettura non basta se il messaggio non viene adeguatamente veicolato. Non basta più produrre per il solo fine di “vendere” (non è più vendita fine a sé stessa), ma saper comunicare un’emozione per soddisfare un desiderio. Possiamo definirla “l’arte di vendere al cervello” e si basa su tecniche di neuroscienza per identificare e comprendere meglio i meccanismi cerebrali che sono alla base del comportamento decisionale dell’acquirente, con l’obiettivo di aumentare l’efficacia delle azioni di comunicazione attuate dalle aziende.

Pubblic Speaking, per dirla semplice: “Parlare in pubblico” cosa che non tutti riescono a fare. Qual è il primo consiglio che dà ai suoi clienti a tal proposito?

Si, verissimo, parlare di fronte ad una platea più o meno estesa di persone è una delle faccende più difficile da affrontare. Pensi, è stato fatto uno studio anni fa in America tra le paure più ricorrenti per un individuo: ebbene ai primissimi posti (oltre alla paura di morire, di diventare povero o delle malattie) troviamo proprio “parlare in pubblico”. Addirittura moltissime persone collocano questa paura al primo posto… Preferirebbero morire piuttosto che parlare in pubblico!

Eppure è fondamentale per instaurare una corretta relazione o per comunicare adeguatamente il proprio messaggio (pensiamo ai nostri politici, ad es.). Imparare a trasmettere, a “vendere” meglio le proprie idee ad un pubblico sempre più vasto è una tecnica che si impara e non si improvvisa. Presuppone abilità comunicative sia verbali che para verbali (tono e volume di voce, timbro, ritmo; anche le pause, le risate, il silenzio…) e non verbali (postura, gestualità, espressioni del viso). Spesso, non è importante quello che si dice, ma come si dice. E i politici, quelli che sanno veramente comunicare, questo lo sanno. Ai miei clienti, il primo consiglio che do è semplice, si riassume in un’unica espressione: “Niente finzioni”. Se vuoi vendere e credi fermamente nel tuo prodotto o servizio, quello che dici deve apparire spontaneo, coinvolgente, deve suscitare entusiasmo. Devi saper parlare alla parte emozionale del cervello: ma devi farlo con tutto il trasporto possibile, con tutto il tuo corpo, con lo sguardo attento, la giusta postura, la gestualità adeguata al contesto in cui operi. Anche qui, come in precedenza, consiglio vivamente di “mettersi al passo” coi tempi, quindi formarsi in tal senso al fine di non trovarsi impreparati o impacciati di fronte ad un pubblico: che sia di fronte ad una larga platea ad es. come conferenziere o un gruppo ristretto di amici e all’interno di un’azienda, quando si gestiscono risorse umane per evitare, in ultima analisi, di essere fraintesi o di trasmettere un’informazione indesiderata.

Tre cose da fare per ottenere una comunicazione più efficace?

Non c’è una ricetta magica per essere efficienti ed efficaci sempre quando cerchiamo di trasmettere il giusto messaggio, anche se è importante considerare diversi aspetti essenziali. Possiamo sintetizzarne tre:  1) Praticare l’ascolto attivo: abbiamo creato un mondo dove nessuno ascolta più. Nelle interazioni avviene spesso che mentre una persona parla e cerca di esprimere il suo punto di vista, l’altro è completamente assorbito nei propri pensieri e sta già elaborando la sua risposta. Sembra proprio un duello. E mentre l’interlocutore sta parlando, egli ha già pronta la risposta. Sono poche le persone che ascoltano empaticamente per capire, senza interrompere o solo chiedendo la parola per fare ulteriori domande di approfondimento. 2) Esprimere le proprie idee con chiarezza ma, soprattutto, con concisione. Bisogna evitare un linguaggio eccessivamente tecnico, complesso o forbito per fare “colpo”. Un modo molto efficace è utilizzare metafore, esempi pratici e storie per rendere più accessibili anche i concetti più complessi.  3) Adattare il proprio stile di comunicazione non solo alla persona che ci sta di fronte, ma anche al contesto. Alcuni preferiscono informazioni più dettagliate, altre potrebbero apprezzare e aspettarsi argomenti di carattere più generale. Considerare le differenze culturali e adattare il proprio approccio. Tutto ciò richiede pratica continua e un impegno costante nell’ascoltare, comprendere gli altri ed entrare nel loro “mondo”.

Ha scritto due libri davvero interessanti, il primo edito da Aras Edizioni (2013) Le attitudini comunicative – Comportamenti vincenti per creare empatia e vivere meglio”.  E le chiedo: può l’empatia manifestarsi forzatamente in un essere umano?  Essere empatici non dovrebbe essere una dote innata? La si può davvero apprendere tramite un processo di studio?

Su questo punto si è molto discusso o dibattuto. Innanzitutto precisiamo che l’empatia non è altro che la capacità di porsi istantaneamente nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, ma senza coinvolgimento emotivo. Il suo sviluppo dipende da tutta una serie di fattori bio-psico-sociali. Non è quindi una competenza innata, bensì allenabile. La manifestazione e l’espressione empatica variano notevolmente da individuo a individuo. Richiede non solo una buona comprensione, atteggiamento mentale e predisposizione d’animo a praticarla, ma anche la consapevolezza di sperimentarla per comunicare più efficacemente poiché, si sa, quando due o più persone “sentono” le stesse emozioni riescono a comunicare meglio.

Creare empatia per vivere meglio; è un po’ come affermare che il metodo migliore per convivere è la reciproca comprensione tra esseri umani. Cosa alquanto ovvia, ma perché dopo anni di studi in materia, arrivati a questa conclusione, non si riesce ancora a educare alla reciprocità?

Sono molti motivi per cui si riesca a creare uno stato d’animo ideale, come l’empatia, per potere reciprocamente condividere adeguatamente e fruttuosamente idee, riflessioni, punti di vista. Le difficoltà a manifestare la propria empatia sono varie e dalla mia esperienza lavorativa ne ho individuato alcune:

Timidezza o introversione: molte persone si sentono a disagio nell’aprirsi emotivamente, anche se provano empatia. È una questione di riservatezza, ma impedisce di esternare i propri sentimenti.
Paura del giudizio: il giudizio degli altri preoccupa sempre e può essere da ostacolo nell’esprimere empatia. Chi teme il giudizio evita di mostrare palesemente le proprie emozioni o di condividere i propri stati d’animo con gli altri.
Problemi o difetto di comunicazione: la mancanza di abilità comunicative è un ostacolo nell’esprimere empatia in modo comprensibile. Una comunicazione inefficace può portare a malintesi o a una mancata espressione delle emozioni.
Complessità dell’essere umano: l’empatia è un aspetto complesso del comportamento umano, influenzato da molteplici fattori come la personalità, il senso di identità, le esperienze di vita, l’educazione, la cultura. La sua natura complessa rende difficile garantire un’applicazione universale di tecniche educative.
Influenze esterne: l’ambiente circostante e il contesto sociale, inclusi i media, le relazioni che intratteniamo, tutto ciò può avere un impatto importante e decisivo sullo sviluppo dell’empatia e della reciprocità. Se tali influenze sono contraddittorie o promuovono valori diversi, può essere difficile stabilire un approccio educativo coerente.
Il bisogno di una formazione continua: l’educazione alla reciprocità e all’empatia richiede un impegno costante e anche qui senza soluzione di continua. Non è sufficiente insegnare queste abilità una sola volta o di tanto in tanto; è necessario rafforzare e rinnovare tale apprendimento nel corso del tempo per garantire una comprensione duratura per poterle praticare nella vita quotidiana, sia in ambito lavorativo che privato. 

Qui mi aggancio al suo secondo libro, pubblicato da Dissensi Edizioni. “RELAZIONI EFFICACI E PERSUASIONE – L’arte di vendere sé stessi e sviluppare la propria leadership nell’era del Neuromarketing”, in cui pone l’attenzione su un argomento davvero importante che va sicuramente approfondito: leggendo il suo libro. Lei afferma che nasciamo già programmati e giocano un ruolo importante i primi due anni di vita, in età prescolare, fondamentali per creare la nostra personalità.  E le chiedo: cosa si può fare per spezzare questo schema mentale e renderci liberi e aperti al cambiamento?

Quando affermo che la nostra programmazione mentale avviene sin dalla nascita, anzi già nel grembo materno voglio anzitutto fugare il dubbio che quello che solitamente chiamiamo “destino” sia già stato deciso… Anzi, tutto il contrario: siamo gli artefici del nostro destino e possiamo cambiare il corso degli eventi anche se siamo stati educati o influenzati da piccoli da circostanze ed eventi a noi sfavorevoli. È un punto cruciale del mio libro, da cui si snoda tutto il resto per capire in che modo i programmi registrati nel nostro subconscio (il vero “realizzatore” della nostra vita) influenzano in modo decisivo le nostre credenze e le nostre convinzioni per il resto della nostra vita. Il cambiamento è possibile, naturalmente, e il primo passo consiste nel prendere consapevolezza di come agisce il nostro subconscio, capire che al di sotto della nostra soglia di coscienza agisce una sorta di entità che determina le nostre decisioni (dalla più banale alla più importante) in ogni istante della nostra vita. È una sorta di memoria di sottofondo che ci guida automaticamente ed è un milione di volte più potente della nostra mente cosiddetta “conscia”, razionale. Infatti l’essere umano non è perlopiù un essere “irrazionale” che prende decisioni dettate più dalle emozioni che dalla ragione. Ma prendere consapevolezza non basta: bisogna capirla a fondo e applicarla nella nostra quotidianità. La pratica e la ripetizione ci rende abili ed è il solo modo per creare una nuova abitudine, più confacente ai nostri sogni o desideri per raggiungere obiettivi. Per attuare un vero cambiamento, dunque, la sola volontà non basta: bisogna disinstallare un vecchio programma che giace in noi in profondità, e installarne uno nuovo che possa aprire una nuova strada a noi più congeniale. Nel capitolo del libro dedicato all’argomento, naturalmente, ho cercato di spiegarlo nel dettaglio. Spero di esserci riuscito.

 Nel suo libro mette anche l’accento su “Il sapersi Vendere”, a tal proposito lo psicologo, e psicoterapeuta austriaco, Hans Morschitzky, dice: “Fare un’ottima impressione e “sapersi vendere” sembrano ormai essere le carte vincenti. A dominare il palcoscenico della vita sono coloro che hanno la parlantina facile, che fanno sentire la propria voce, non temono di mettersi in mostra, e si presentano coraggiosi e dominanti. I mezzi di comunicazione ce lo dimostrano: l’importante è apparire, costi quel che costi, e più si dà nell’occhio, meglio è!”. Una sua considerazione.

Nel mio settore c’è un detto: “Non hai una seconda occasione per fare una buona prima impressione”. Sembrerebbe un truismo, ma c’è una spiegazione scientifica in questo: il nostro cervello, nelle occasioni di incontro, registra in una frazione di secondo sensazioni, impressioni, timori, speranze, ecc. Si basa essenzialmente su dati, influenze ed esperienze di vita registrati in precedenza e cerca sempre conferme delle prime impressioni, in accordo con la propria visione del mondo. Solo successivamente riesce ad elaborare una spiegazione più “razionale” e veritiera. Molti professionisti, o pseudo tali, partendo da tali presupposti, cercano immediatamente di “apparire”, di confondere con la parlantina veloce, con il sorriso falso stampato sul viso, pensando che mostrare un certo personaggio “forzato” possa fare ottenere risultati auspicati. Ma è un’illusione. Le persone “avvertono” inconsciamente (si dice “a pelle”) questa mancanza di sincerità: viene presto fuori lo scarso professionalismo di certi individui proprio per mancanza – come dicevo sopra – di empatia e reciproca comprensione.

Se potesse viaggiare nel tempo e conoscere un grande comunicatore del passato, chi sarebbe e quale curiosità si toglierebbe?

 I “viaggi nel tempo” mi hanno sempre affascinato. È il genere che seguo molto quando cerco un film da vedere. Tematiche come “paradosso” o “Loop temporale”, “portale spazio-tempo”, ecc. hanno sempre attirato la mia attenzione. Si avrebbe l’occasione di sperimentare il futuro… rivivere il passato e incontrare – appunto – qualche personaggio del passato che ha fatto la storia e al quale rivolgersi per alcuni “dubbi” o curiosità che l’uomo contemporaneo non è riuscito a risolvere. L’elenco sarebbe lunghissimo: da Gesù, ad esempio, al quale chiederei soprattutto di chiarirmi la questione del libero arbitrio… che molti dubbi ed interpretazioni ha lasciato nel corso dei secoli. Un altro personaggio che mi intriga moltissimo è Gustavo Roll (al quale chiederei delle sue “magie”). Ma attenzione: quando si parla di “Grandi Comunicatori” (e ce ne sono stati tantissimi), purtroppo, molti lo sono stati in negativo. Coinvolgere e convincere le folle non è stato sempre appannaggio di personaggi che hanno fatto la Storia raddrizzandola da storture. Ad esempio anche Hitler è stato, a modo suo, un grande comunicatore… Mi piacerebbe incontrarlo e chiedergli, semplicemente: “Perché”? Pur intuendo già la risposta, mi piacerebbe sentirla dalla sua bocca e cercare di “capire”.

Quanto è importante, oltre che il saper comunicare, il saper tacere al giusto momento?

Saper tacere al momento giusto è altrettanto importante quanto comunicare in modo efficace. La comunicazione non riguarda solo l’atto di trasmettere un messaggio in modo verbale, para verbale o non verbale (come dicevo prima), ma anche la capacità di ascoltare e capire quando è il momento di rimanere in silenzio. Molte sono le ragioni per cui il saper tacere è fondamentale:

Rispetto: il silenzio può rappresentare un segno di rispetto per il nostro interlocutore. Consentire la libera espressione del nostro interlocutore senza interruzioni dimostra considerazione, apertura mentale e intelligenza.
Accumulare la giusta energia comunicativa: mantenere il silenzio, in alcune circostanze, può essere più potente di qualsiasi parola. Può catturare l’attenzione e creare un impatto maggiore quando si decide di parlare.
Evitare conflitti: in alcune circostanze, soprattutto quando siamo in presa a forti emozioni, il saper tacere può essere la chiave per evitare conflitti inutili. Concedersi una pausa può permettere alle eventuali tensioni di diminuire e aprire la strada a una comunicazione più costruttiva ed efficace.
Riflessione: starsene in silenzio, quando occorre, offre la possibilità di riflettere prima di rispondere. Questo può evitare risposte impulsive e evitare malintesi, consentendo di rispondere in modo più ponderato e coerente. Per riassumere, il giusto equilibrio tra il saper comunicare e il saper tacere è fondamentale per una comunicazione efficace e instaurare corrette relazioni. Sapere individuare il momento giusto per parlare e quando ascoltare, quando rispondere e quando tacere, contribuisce a costruire legami significativi e contribuisce ad evitare incomprensioni.

Se dovesse definirsi con una sola parola quale sarebbe e perché?

Sembra una domanda semplice… ma è forse la più difficile. Forse perché solo chi mi conosce bene può farlo. Difficile poiché è pressoché impossibile tentare di “definirsi”, specie con una sola parola… Azzarderei: onesto, sincero, stakanovista, gentile, premuroso, divertente (quando occorre). Ma anche serio (ma non “serioso”). E tengo molto all’educazione. Forse questa è la definizione che mi piace di più: “Serio professionista” (oltre che buon padre di famiglia…), perché mi piace dare il massimo, sia nella vita privata che in quella professionale e, in ultima analisi, cerco sempre di soddisfare, anzi superare, le aspettative di chi ripone la fiducia nei mei confronti. 

Henri Bergson, filosofo francese, diceva: “La comunicazione avviene quando, oltre al messaggio, passa anche un supplemento di anima.”  E qui le chiedo: nella sua esperienza la sua parte spirituale l’ha aiutata nella sua crescita personale?

Il gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin diceva: “Noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana”. È una citazione che ho fatto mia, che condivido appieno. Viviamo contemporaneamente su due piani: quello tangibile e quello intangibile dello spirito che ci guida nelle scelte che facciamo. Ne sono convinto. Quando tutto sembra cedere intorno a noi, quando sembra che niente giri per il verso giusto, è dentro di noi che attingiamo quella forza che ci permette di rialzarci. Possiamo chiamarla come vogliamo (spirito, anima) ma ci aiuta, eccome. È la stessa forza, misteriosa, alla quale ho fatto affidamento per risolvere problematiche e per la mia crescita personale.

Progetti futuri?

Parecchi. Voglio migliorare nel mio lavoro, ho in mente nuove procedure per aiutare le mie imprese clienti e per conquistarne nuovi. Sto stilando programmi di formazione mirata e coaching innovativi e sempre più mirati e ho in mente un altro progetto editoriale… Un altro saggio che approfondisca le tematiche che più mi stanno a cuore (sviluppo personale, coaching e motivazione in ambito lavorativo e privato) e, in ultimo una sfida: scrivere una storia romanzata in cui il lettore avverta inconsciamente “cambiamenti”, man mano che prosegue la lettura e che grazie allo straordinario potere delle parole riesca a liberare lo straordinario potenziale del proprio cervello. Il tutto senza che se ne renda conto consciamente.

E giungo alla mia curiosità iniziale: Esiste un metodo brevettato per imparare a comprenderci?

Ci sono numerosi approcci, tecniche e procedure sviluppati da esperti di comunicazione e da formatori che possono veramente aiutare a migliorare la reciproca comprensione. Tuttavia, ad oggi, non esiste una metodologia universalmente accettata o addirittura brevettata per imparare a comunicare in modo efficace. Ci sono alcuni programmi di formazione sulla comunicazione efficace: molte organizzazioni offrono corsi e workshop sulla comunicazione come i corsi mirati di Mindfulness e consapevolezza: sono approcci che promuovono la presenza mentale e la consapevolezza emotiva possono contribuire a migliorare la comprensione proprie e altrui. Ma anche servizi di coaching personalizzato per sviluppare le abilità di comunicazione e la comprensione reciproca. La comunicazione è un processo complesso, dipende da tantissimi fattori concomitanti, inclusi l’ambiente, e dinamiche relazionali e i soggetti coinvolti. Credo che il modo migliore sia: sincerità, empatia e amore per il prossimo.

 

 

 

 

 

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