Solo anime curiose, menti aperte a ricevere, prodighe nel loro lavoro, possono calarsi nel profondo delle cose, delle persone, estrapolando dalla conoscenza quelle intuizioni che portano a varcare strade ancora inesplorate.
Solo un profondo studio, legato ad una forte passione in ciò che si fa, può portare ad ampliare i propri orizzonti, crescendo ogni giorno un po’ di più, sia di esperienza che di conoscenza.
Thomas Stearns Eliot diceva: “non smetteremo di esplorare e alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”. Un pensiero che sento affine con l’ospite di oggi che fa parte di questa categoria di anime che sanno andare oltre, scavare nelle profondità degli altri.
Nel tempo si è occupato di politica, economia, attualità per poi cimentarsi con successo in molti campi letterari che vanno dalla poetica, alla narrativa, al giornalismo, alla saggistica, alla critica letteraria. È presente in moltissime antologie e riviste culturali. Importante la sua produzione letteraria tantoché il poeta Alessandro Carrera gli ha dedicato un saggio che prende in considerazione l’insieme della sua opera poetica e narrativa. La saggistica è un altro settore in cui eccelle: i suoi saggi critici sono presenti in molte prestigiose riviste del settore. In un’intervista è stato definito un “Nomade della cultura”. Io mi sento di definirlo uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo, una mente che sa adeguarsi ai tempi che cambiano e apprenderne il meglio.
Innanzitutto la ringrazio di essere qui, quali sono stati gli autori di riferimento durante la sua adolescenza?
Grazie a lei e a tutti voi della redazione per l’ospitalità e la presentazione. Vengo subito alla prima domanda. Divido la mia adolescenza in due momenti distinti. Nel primo ero uno studente che seguiva i suoi insegnanti, mi piacevano la poesia e la letteratura italiana, leggevo quello che la scuola proponeva senza altre curiosità particolari. Nell’ultimo anno delle superiori però ebbi un insegnante d’eccezione: Franco Fortini. Nella presentazione che avete scritto citate Eliot: lo conobbi con lui perché a differenza degli altri insegnanti di lettere, pur bravi, Fortini era il solo che tesseva riferimenti costanti fra la letteratura italiana e quella europea. L’incontro con la poesia di Eliot fu per certi aspetti straniante: quei ritmi così jazzistici e lontani dalle sonorità italiche erano un altro mondo poetico. Nel tempo, Eliot l’ho poi ridimensionato un po’, ma la mia passione per la letteratura anglo statunitense nasce in quel momento e non per caso mi laureai poi in lingue e letteratura inglese con una tesi di americanistica. Paradossalmente, però, quell’incontro mi riportò anche a due italiani che avevo un po’ trascurato fino a quel momento: Gozzano e Pavese. Con tutto questo finiva pure l’adolescenza.
Le va di lasciarci una sua lirica?
Volentieri e scelgo il testo che chiude l’ultimo libro pubblicato: Veglia Europa.
1789-1989
La carta dei diritti
l’aldiquà luminoso
e poi l’assalto al cielo.
Il lampo centennale si spegne
annotta ed è il deserto
una polvere fine, invisibile
ha sommerso il sogno profano
la conoscono i passi dell’esodo
i millenni dell’oppressione.
I campi, le strade e le città
sono state la sua casa, ha fatto
paura ai potenti, trionfato e perso.
Il poeta della storia è un albatro
di nuovo ai ceppi imprigionato.
Scrivere un diverso statuto
sulla dura pietra di una fabbrica
richiedeva tempo e qualcosa di più
della fratellanza, del pane insieme
compagni…
ma tutto rodeva ai fianchi
del camminare goffo.
Ora in una gabbia che non ha sbarre
ma filosofie sofisticate e
insegne che piegano all’ignavia,
al nichilismo d’occasione
ai suoi poeti e falsi maestri narcisi
ad ali basse guarda la strada…
ma il sarto di Ulm continua a tornare
nei sogni, nel balenio improvviso
e risveglio dal sonno letale,
a dire che sì, si può
imparare a volare.
Lo abbiamo visto nella condizione
aurorale a ogni latitudine,
che fu un attimo
prima di nuove distruzioni.
Un diverso cammino,
a piedi in mezzo a una polvere che è
deserto e veleno, passo dell’esodo
e accampamenti
lontano dal cielo, nell’ora e nel qui
che stanno nella via di mezzo e noi
non più natura,
non ancora cultura
al passo claudicante di sempre.
Dal 2008 è vice presidente della Società di Psicanalisi Critica. Di che si tratta?
Quella con la Società è un’esperienza che si è conclusa, anche se mantengo con chi ne fa parte uno spirito di collaborazione. Nella società mi occupavo di letteratura, seppure con un’attenzione per le tematiche psicoanalitiche. Poi però maturarono altre esperienze e ho preferito dedicarmi a quelle: l’età che avanza obbliga anche a porsi dei limiti.
Quali sono le qualità che deve avere, oggi, un buon libro per arrivare ad essere apprezzato?
Questa è una domanda cui è particolarmente difficile rispondere e che implica una riflessione critica sullo stato dell’editoria e non solo. Ci provo, partendo dall’esperienza di lettore. Un buon libro per me è quello che ancora oggi mi sveglia dal torpore e dalle abitudini troppo consolidate; oppure che mi fa entrare in un mondo che non conoscevo. Infine, un buon libro è anche quello che mi riporta ad autori a me già noti ma cogliendone aspetti nuovi. Che sia poi un libro anche apprezzato è questione più complessa perché implica una scelta del metro di misura e del pubblico a cui si rivolge. Sembra che gli influencer siano molto importanti nel determinare l’apprezzamento di molte cose e forse anche dei libri, ma credo che un autore debba prima di tutto chiedersi: in che cosa vorrei essere apprezzato e per che cosa? Anche come lettore cerco sempre di capire se questo interrogativo un autore se lo è posto o meno.
Nei suoi saggi qual è la parte che preferisce analizzare: quella umana o artistica?
Apprezzo molto questa sua domanda perché mi permette di chiarire dei punti che mi stanno molto a cuore: nello scrivere un saggio occorre a mio avviso cercare sempre un equilibrio fra lato artistico e lato umano. Mi spiego. L’idea che un artista, oppure poeti e poetesse, siano esseri che si collocano aldilà del bene e del male è un’idea che ho sempre respinto; ma non ho mai neppure apprezzato, per esempio, quelle letture testuali talmente formaliste che presuppongono che quell’opera e quell’artista vivano in una sorta di vuoto pneumatico, asettico e immune da tutto. A parte che non è possibile, mi chiedo poi a cosa serva. Questo però non significa fare della biografia da intrattenimento e gossip. Faccio tre esempi che mi sembrano emblematici. Kafka e suo padre: impossibile prescindere dal loro rapporto, ma meglio sarebbe non seguire fino in fondo la vulgata che vuole il figlio vittima di quel padre. Leggendo bene tutto e fra le righe non saprei dire alla fine chi dei due fu più cattivo con l’altro. Il secondo esempio: Pasolini. Impossibile scriverne criticamente ignorando la sua omosessualità. Naturalmente altra cosa è ridurre Pasolini alla sua omosessualità. Il terzo riguarda una poeta statunitense che amo molto. Audre Lord. Come si può scriverne prescindendo dal suo essere nera, donna, lesbica e femminista?
Tra i suoi saggi mi soffermo su “Between a dish of fruit and a comet” ( 2011) dedicato al poeta Wallace Stevens ( 1879 – 1955) Vincitore del Premio Pulitzer per la poesia. Perché ha scelto Wallace?
Parlare e scrivere di Wallace Stevens è sempre un piacere per me. Lei cita un saggio che è una parte di una collezione di saggi che sono pubblicati anche nel mio blog e di cui prima o poi spero di fare un libro: fra l’altro, questo che lei cita è stato tradotto in inglese perché fu letto all’università di Louiseville in occasione della conferenza annuale che si tiene su di lui in quell’ateneo. Dire qualcosa su di lui in poche righe è difficile. In estrema sintesi, comincerei dalla lingua. Wallace Stevens insieme a Marianne Moore e a pochi altri, ha dato nuova linfa all’inglese proprio nel momento in cui, in quanto lingua veicolare mondiale, esso subiva un forte riduzionismo e standardizzazione. Questo vale per quel contesto linguistico. Stevens è però un poeta che ripercorre nella sua poesia l’intera civiltà occidentale, per poi guardare verso oriente: dai miti solari al mito cristiano, al teatro giapponese, il suo è un excursus vertiginoso. Infine un terzo elemento. Stevens ha cercato la poeticità non nel favoloso altrove che per lui non esiste, ma in una qualità fine della materia che ha in sé ma solo in alcuni momento l’elemento che la trasfigura. Una sua espressione che ripete più volte in forme diverse è che i grandi poemi del Paradiso e dell’Inferno sono stati scritti ma non ancora quale sia il canto della terra. La sua poesia, anche quando sfida il pensiero filosofico si pone sempre questo obiettivo: far risuonare il canto della terra, cioè del luogo in cui viviamo.
Un suo saggio dal titolo ‘Nel ventre del pescecane’ è pubblicato nel libro “Pinocchio in volo fra immagini e letterature”, a cura di Rossana Dedola e Mario casari, Bruno Mondadori editore. Cosa l’affascina di questa narrazione di Collodi?
Cosa mi affascina di Pinocchio? Altra domanda complicata. Potrei rispondere che i motivi sono talmente tanti e diversi che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Capisco che cavarsela così è però troppo facile e allora ne scelgo uno anche perché è controverso. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile che in pieno positivismo scientifico e progressismo trionfanti nascesse un’opera sapienziale che ci riportava a un contesto che poteva apparire pre moderno. La risposta che mi sono dato rifiuta prima di tutto l’idea che ciò sia dovuto all’arretratezza del contesto italiano e si rifà invece a una frase di Jung e cioè che il grande artista o la grande opera fanno sentire a un’epoca ciò che più le manca. Cosa mancava a quell’epoca? Forse proprio la boria un po’ illuministica con cui si pensava di essersi lasciato alle spalle tutto il vecchiume e che si andava verso un’epoca di grande progresso. Questa mia lettura è lontana però dalle interpretazioni cattoliche del testo di Collodi ed è stata piuttosto influenzata dalla lettura del libro di Giorgio Manganelli: Pinocchio un libro parallelo. Tale interpretazione è controversa perché chi la critica sottolinea che alla fin fine Pinocchio è un ribelle senza causa che quando smette di esserlo diventa troppo normale, persino un ometto d’ordine. Invece a me sembra, come ho scritto in quel saggio, che la sua è una grande e moderna storia di iniziazione alla vita adulta, una storia che non ha nulla da invidiare ad altre del passato, ma che il suo contesto è la modernità. Di Pinocchio ho visto anche i film – credo averli visti proprio tutti; proprio per il fatto che sono stati girati in anni diversi, mi restituiscono ogni volta una valenza diversa anche del libro.
Nel 2016 pubblica sul magazine del Wall street Journal Italia, diretto da Nathalie Dodd, “Il Minotauro e la scimmia”. “Questo pezzo teatrale ripercorre la vita di Picasso, il legame tra l’uomo Picasso e la sua pittura. Evidenzia il rapporto distorto che il pittore aveva con le forme e con i corpi femminili, la sua capacità di creare con la stessa forza con cui distrugge”. Spesso gli artisti riportano dal loro subconscio i loro demoni interiori donandogli un nuovo aspetto di forme e colori. È possibile che Picasso nel suo modo di distorcere la figura umana; in qualche modo, ritraeva il suo timore di celebrare la vita? In questo pezzo si evidenzia anche la parte più fragile di Picasso: la sua ossessione per la morte. Qual è, invece, il suo rapporto con la morte?
Le domande su Picasso sono due e nella mia risposta le metto insieme ma esse mi riportano anche a quella precedente su arte e vita, questione che è centrale per me in Picasso e anche per me nel rapporto con la sua opera. Il Minotauro e la scimmia è un lavoro che mi ha dato molte soddisfazioni, è stato messo in scena da due diverse compagnie teatrali: a Milano per la regia di Stefano Tenconi a la Spezia di Fabrizia Fazi che ne ha scritte in realtà due diverse versioni, una delle quali un video. Nonostante tutto ciò è anche un testo che mi riporta alle ossessioni di Picasso, ma anche al desiderio di non occuparmene più, per le ragioni che lei indica alla fine della sua prima domanda: il suo demone, il Minotauro – che a differenza di altre letture del mito, per esempio quella che ne fa Borges – Picasso riteneva essere davvero un mostro – è proprio il suo alter ego mostruoso, difficile da accettare. Lei alla fine della seconda domanda parla della sua ossessione per la morte: è proprio tale ossessione che per me lo spingeva a fagocitare tutto, dalle forme ai corpi femminili. Ho studiato le biografie su di lui a lungo e mi ha sempre inquietato il fascino che la sua arte aveva su di me e al tempo stesso la repulsione che sentivo per l’uomo. Il Minotauro e la scimmia è un po’ il mio corpo a corpo con tutto questo. Quanto alla fragilità cui lei accenna, non saprei cosa dire nel suo caso, ma sulla fragilità maschile il femminismo ha detto molte cose importanti. Passo allora subito alla sua domanda successiva per dire che, per mia fortuna, il mio rapporto con la morte – anche se non saprei dire con chiarezza quale sia – è sicuramente più sereno di quello di Picasso.
“Frattali” è la sua nuova pubblicazione; un titolo singolare, qual è la sua interpretazione? Parliamo di una raccolta di racconti “Storie che ne partoriscono altre, figure del passato che tornano… C’è qualcosa di biografico in questa sua nuova opera?
Mi aspettavo questa domanda su Frattali perché il titolo ha incuriosito e spiazzato, ne ho anche discusso con amici e qualcuno mi ha chiesto pure perché mai per un libro di racconti avessi scelto un logo in copertina che si richiama alla geometria e alla matematica. Frattali è un concetto che viene dalla matematica e che è abbastanza nuovo nel senso che non è da moltissimo tempo che si studiano i frattali. Apparentemente sono degli scarti, dei residui, dei resti di qualcosa; ma poi proprio i matematici hanno scoperto che anche nei frattali esiste un ordine. Naturalmente hanno tradotto tutto ciò in equazioni di cui nulla posso dire perché di matematica poco capisco; ma la metafora mi sembrava assai intrigante. Che da un resto possa nascere un ordine mi sembrava qualcosa di straordinario e mi sono chiesto allora qual è in un’opera scritta il correlativo di una equazione in matematica? La mia risposta è che questo ordine lo dà il montaggio, parola che viene dal cinema ma che è fondamentale a mio avviso anche per un libro. Se poi il mio montaggio sia riuscito o meno questo non lo posso dire io. Quanto alla questione della biografia, cioè quanto di biografico ci sia in questi racconti … beh posso dire che qualcosa che mi assomiglia in quello che scrivo c’è sempre ma poi è anche vero che i personaggi vanno un po’ dove vogliono loro. Se invece la sua domanda si riferisce proprio a una mia esperienza personale le rispondo che sì: in Frattali un racconto si riferisce proprio a una mia esperienza, ma non le dico qual è.
Se potesse viaggiare nel tempo e conoscere uno dei protagonisti dei suoi saggi, chi sarebbe e cosa gli chiederebbe?
La domanda è molto divertente: scelgo Orfeo e gli farei questo discorso. Senti Orfeo, sono migliaia d’anni che si parla di te, l’ho fatto pure io e un po’ me ne pento. Se ne sono dette di tutti i colori ma tu – che in vita eri un po’ un piagnone – da un certo momento in poi ti sei chiuso nel silenzio. Insomma, ci vuoi dire una buona volta perché mai ti sei voltato?
Progetti futuri?
Il progetto futuro più importante di questo momento è collettivo. Insieme a Paolo Rabissi fondammo nel 2013 il blog Diepicanuova. Lo scorso anno abbiamo deciso di chiudere il blog – che è sempre visibile in ogni caso – e di farne un libro coinvolgendo anche gli autori e le autrici che hanno pubblicato testi o riflessioni critiche. Siamo una quindicina di autori e autrici che si sono cimentati e hanno riflettuto sull’epica nel nostro tempo. Il libro avrà per titolo Di epica nuova, laboratorio di poesia critica. Naturalmente nel passaggio da blog a libro abbiamo cucito, tagliato e assemblato in modo diverso. Adesso il progetto è pronto e andrà in stampa fra breve. Per quanto riguarda me come autore, un romanzo dal titolo L’espressione geografica è presso un editore da cui attendo risposta. Si tratta di un romanzo storico sul dopoguerra, diviso in tre parti. Infine un libro di saggistica in pratica già ultimato sull’opera di Walter Benjamin.
Ma chi è Franco Romanò nella vita di tutti i giorni?
Franco Romanò è un uomo di 77 anni il prossimo14 maggio. Parto da qui perché siamo fatti di un corpo che nel tempo ci dà gioie e limitazioni, in tutte le età e in modi diversi, talvolta sorprendenti. Credo di accogliere il tempo che passa con serenità nonostante i problemi che ho – come tutti – e a dispetto del peso di un mondo che fra guerre e altro diventa sempre più insopportabile. Tutto sommato cerco di far prevalere l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione (che va tuttavia sempre mantenuto vigile) nonostante la mia eccessiva propensione al mugugno.