Le motivazioni con cui la Suprema Corte lo scorso febbraio ha annullato l’assoluzione per ‘O’ Pazz’
Michele Senese ”palesava un chiaro interesse personale all’esecuzione delle varie operazioni, era inserito nelle varie dinamiche economico finanziarie della famiglia’’ e ne ‘’sovrintendeva agli interessi economici, forniva il suo assenso, antecedente o successivo, contribuiva agli affari di famiglia con un’ingente provvista finanziaria di provenienza illecita’’. E’ quanto sottolineano i giudici della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso febbraio hanno annullato l’assoluzione per il boss, detto ‘O’ Pazz’, nell’ambito del processo romano nato dalla maxi inchiesta della Dda di Roma ‘Affari di Famiglia’. Una decisione con cui i supremi giudici della seconda sezione penale hanno sostanzialmente accolto il ricorso della procura della Capitale contro la sentenza che il 9 febbraio dello scorso anno aveva assolto Michele Senese e aveva fatto cadere l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, disponendo un appello bis. Per i supremi giudici dunque, ‘’la Corte di appello ha concluso per l’assoluzione di Senese senza fornire una spiegazione logica del perché egli dovesse essere costantemente messo al corrente dai familiari delle varie iniziative economiche dei componenti della famiglia ed in particolare del figlio Vincenzo e perché, se effettivamente fosse stato estraneo a quegli affari, avrebbe dovuto adirarsi per il tenore degli impegni presi’’.
L’accusa
Secondo l’accusa Michele Senese anche dal carcere continuava a coordinare e gestire le attività illecite della famiglia stabilendo la strategia criminale, scambiando ‘pizzini’ con i familiari durante i colloqui, in particolare con il figlio Vincenzo, e con la moglie, Raffaella Gaglione. In almeno due occasioni, Senese, per gli inquirenti, si era scambiato con il figlio, senza farsi notare dal personale di vigilanza, le scarpe rispettivamente indossate per scambiarsi messaggi.
“Cioè, qui stiamo parlando de… che è il capo di Roma! No il capo di Roma, il capo…il boss della camorra romana!!! Comanda tutto lui!!”, diceva un arrestato riferendosi a Senese in un’intercettazione riportata nell’ordinanza del gip. In primo grado a Roma c’erano state una ventina di condanne, tra i quali la moglie Raffaella Gaglione, il figlio Vincenzo e il fratello Angelo e altri imputati, per oltre 120 anni di carcere per accuse che vanno dall’estorsione, all’usura, riciclaggio e trasferimento fraudolento dei valori. Michele Senese, già condannato in via definitiva nel 2017 a 30 anni per l’omicidio di Giuseppe Carlino, avvenuto il 10 settembre 2001 a Torvaianica, sul litorale romano, era stato condannato a 15 anni. Sentenza poi ribaltata in Appello con l’assoluzione, non condivisa però dai supremi giudici che hanno accolto il ricorso della procura di Roma.
La cassazione
Per la Cassazione, si legge nelle 55 pagine di motivazioni, ‘’la sentenza di appello ha sbrigativamente liquidato la questione dell’aggravante mafiosa ritenendo che le pronunce assolutorie di Michele Senese dal reato associativo di matrice camorristica da parte del gip di Roma il 12.7.2010 e quella di condanna di Michele Senese per l’omicidio Carlino in cui era stata esclusa l’aggravante mafiosa, nel gennaio 2016, precludessero l’accertamento dell’esistenza di un gruppo camorristico denominato clan Senese senza considerare che la Corte di appello di Roma, successivamente, con la sentenza del 3/10/2018 confermata dalla Corte di cassazione nel febbraio 2020, non solo aveva accertato l’esistenza del clan camorristico Pagnozzi, anch’esso di matrice camorristica e poi consolidatosi a Roma, ma aveva apprezzato anche il riconoscimento dei rapporti tra questo clan ed altri gruppi criminali operanti sul territorio capitolino, tra i quali i Casamonica e i Senese, definiti nella sentenza di primo grado come ‘famiglia di estrazione napoletana che su Roma era importante e intimoriva con diramazioni e interessi in vari settori’, spiegando che pur non potendosi parlare di un sodalizio unitario tra il clan Pagnozzi e il clan Senese, i rapporti tra i due gruppi erano improntati a reciproci favori (chiaro indice di mafiosità), avevano una comune matrice camorristica, avevano stretto accordi per regolamentare gli ambiti operativi di ciascun gruppo’’.
Per i giudici della Cassazione inoltre ‘’è emblematico che il sodalizio in questione venisse percepito all’esterno, come ‘clan Senese’ e non come ‘Michele Senese e altri’, in quanto l’elevata caratura criminale del capo evidentemente aveva strutturato intrinsecamente quella del gruppo e con essa ha finito per confondersi’’. Secondo gli ‘ermellini’, ‘’operando una valutazione atomistica degli elementi indiziari e svilendone la reale portata rappresentativa, la Corte di appello è pervenuta ad esiti che negano rilevanza penale alla pur riconosciuta esistenza di un nucleo territoriale strutturato, direttamente collegato, per il tramite di Michele Senese, alla camorra napoletana in grado di offrire protezione, ad esempio, nel campo della ristorazione proprio in considerazione dell’aura criminale di cui il gruppo era ammantato’’. Dopo la sentenza della Cassazione le posizioni, a partire di quella di Michele Senese, torneranno al vaglio della Corte di Appello di Roma.