Ong. Dove finiscono i miliardi che dovrebbero salvare il mondo?
Il paradosso etico delle Ong, chi predica trasparenza e chi gestisce nell’ombra
Si presentano come guardiani dell’umanità, custodi dell’ambiente, difensori degli ultimi. Le Ong raccolgono fondi al grido di giustizia e fratellanza, mobilitano le emozioni con immagini di bambini affamati, ghiacciai che si sciolgono e rifugiati in fuga. Ma poi, quando si passa ai bilanci, la retorica si sfilaccia.
Secondo l’ultima relazione della Corte dei conti europea, tra il 2021 e il 2024, oltre 7,4 miliardi di euro sono stati destinati a Ong con sede o operatività nell’Unione. Una cifra che dovrebbe implicare massima vigilanza. Invece, il sistema è tutto tranne che trasparente: i fondi sono gestiti con criteri vaghi, le attività di lobbying non sono tracciate, le rendicontazioni lacunose.
La relatrice del rapporto, Laima Andrikienė, non lascia spazio a dubbi: «Non stiamo parlando di spiccioli». E aggiunge un monito che suona come un’accusa: «La trasparenza è essenziale per garantire una partecipazione credibile delle Ong ai processi dell’Ue». Oggi, questa credibilità è seriamente compromessa.
La Corte sottolinea come il problema sia strutturale. Non esiste nemmeno una definizione uniforme di Ong all’interno dei sistemi europei. Questo significa che nessuno sa con certezza quante siano, dove operino e a cosa destinino esattamente le risorse ricevute. Di fatto, un universo parallelo in cui si predica la trasparenza mentre si opera con dinamiche da zona franca.
Il nodo più doloroso riguarda le organizzazioni che si occupano di ambiente. In teoria dovrebbero essere le più attente al bene comune, in pratica risultano fra le meno limpide nei rapporti con i decisori politici e nella gestione dei fondi. Proprio quelle che chiedono a governi e cittadini comportamenti virtuosi, si rivelano incapaci — o peggio, riluttanti — a dare l’esempio.
La sproporzione tra l’auto-narrazione eroica e la concreta rendicontazione si traduce in una perdita di fiducia collettiva. Quando un’organizzazione vive grazie al sostegno dei cittadini e ai fondi pubblici, non può permettersi opacità. E non può appellarsi a un’etica superiore per sottrarsi ai controlli.
In tutto questo, l’Unione Europea continua a finanziare, spesso senza verificare. E i cittadini europei, nel frattempo, vedono aumentare il sospetto che molte Ong si siano trasformate in veri e propri soggetti para-istituzionali, dotati di potere, ma privi di responsabilità.
La questione non è ideologica, ma politica e morale: chi riceve denaro pubblico ha il dovere di giustificarne ogni centesimo. E chi pretende di incarnare valori universali, deve accettare di essere valutato con un rigore doppio, non dimezzato.
Se il terzo settore vuole evitare una deriva reputazionale irreversibile, deve rinunciare alla zona grigia in cui oggi troppo spesso prospera. Oltre le buone intenzioni, servono numeri chiari, documenti accessibili, regole uguali per tutti. Perché la fiducia, una volta persa, non si ricostruisce con un post emozionale o una campagna video.
E se alcune Ong non sono disposte a percorrere questa strada, allora forse è tempo di chiamarle per quello che sono: attori privati, spesso politicizzati, travestiti da missionari.