John le Carré: l’ideologia invisibile della Guerra Fredda
David Cornwell, meglio conosciuto come John le Carré, ha trasformato lo spionaggio della Guerra Fredda in una delle forme più raffinate del romanzo del secondo Novecento. Non come Fleming, che trasformava la tensione geopolitica in gadget e donne, ma elevando la figura della spia a metafora morale, specchio della decadenza e del disincanto politico occidentale. Eppure, proprio mentre denunciava gli orrori e le menzogne del potere, le Carré finiva spesso per celebrare il mito dell’occidente.
Una guerra mai fredda davvero
La Guerra Fredda, nella sua forma concreta, non fu affatto “fredda”. In Corea, in Vietnam, in Angola o in Nicaragua si combattevano guerre calde, con sangue e propaganda. Ma sul fronte interno dell’Occidente, la “guerra fredda” era un mito organizzativo: uno strumento per disciplinare la sinistra, limitare la spinta egualitaria del dopoguerra e mantenere il consenso verso il capitalismo liberale. Non a caso, tra i prodotti culturali più potenti di quel periodo troviamo proprio il romanzo di spionaggio.
Le Carré si inserisce in questo contesto come autore-chiave: ex agente dell’MI5 e MI6, capace di denunciare l’ambiguità morale dei servizi segreti senza mai rompere davvero con l’establishment che li produceva. I suoi romanzi costruiscono una retorica del dubbio etico, ma i buoni restano quelli che parlano inglese in stanze tappezzate di legno e ritratti della Regina.
La spy story come romanzo nazionale
Nei romanzi di le Carré, l’ideologia è raramente esplicita: il comunismo è un male da contenere, ma raramente spiegato o discusso nei suoi ideali. Il liberalismo, invece, viene narrato non come ideologia ma come civiltà: un modo di vivere, una compostezza morale incarnata da George Smiley, il protagonista ricorrente, il cui patriottismo non ha nulla di bellico e tutto di liturgico. Ama “l’Inghilterra” – non la Gran Bretagna, si badi – fatta di giardini, college e understatement.
Questo senso di superiorità morale, intriso di nostalgia e senso della misura, costituisce il cuore emotivo dell’opera di le Carré. È un conservatorismo estetico, più che politico, che però diventa ideologia nel momento in cui copre con la polvere dell’ambiguità etica le strutture del potere.
Il tradimento come psicoanalisi collettiva
Molti dei romanzi di le Carré sono ossessionati dal tradimento. Ma il tradimento non è solo politico – è famigliare, personale, quasi psicoanalitico. Il padre truffatore, Ronnie, è l’ombra che aleggia su tutto, più ancora dei servizi segreti sovietici. Le spie tradiscono le nazioni, ma prima ancora tradiscono padri, amici, amanti. Il conflitto tra fini e mezzi non è solo etico: è una frattura dell’identità.
In Una spia perfetta, questo conflitto diventa struttura portante. Magnus Pym, doppio agente, fugge non tanto dallo Stato quanto dal suo passato. Le Carré qui scrive forse il suo romanzo più politico fingendo che non lo sia: perché narrare la scomparsa dell’ideologia significa, in fondo, ratificare la vittoria della più silenziosa tra tutte le ideologie: quella liberale.
Un realismo mitologico
Le Carré viene spesso celebrato per il suo “realismo”. Ma è un realismo ingannevole. I suoi romanzi non descrivono il mondo com’è, ma come l’Occidente ama immaginare se stesso: un luogo in cui anche la corruzione ha stile, anche il tradimento ha eleganza, e perfino le guerre segrete sono occasione per esibire misura e raziocinio. In realtà, questa estetica del realismo serve a occultare una struttura ideologica profonda: il mondo di le Carré è popolato da burocrati decadenti, moralisti riluttanti, ma alla fine l’ordine prevale, e l’ordine è sempre anglosassone.
La funzione mitica dello spionaggio
Come Tolkien aveva creato un’epica per la crisi dell’impero britannico, così le Carré ha creato un mito per la sua decadenza. I suoi romanzi non spiegano il mondo, ma lo ordinano secondo un rituale: quello del contenimento, della retorica della minaccia, dell’eterna insidia interna (la “talpa”) da estirpare per purificare il corpo sano della nazione. Non è un caso che il successo della serie La talpa coincida simbolicamente con l’arrivo di Margaret Thatcher al potere: la fiction diventa rappresentazione rituale della restaurazione.
Oltre il Muro
Quando il Muro di Berlino crolla, anche il mondo di le Carré vacilla. Il sarto di Panama (1996) e i romanzi successivi cercano nuovi nemici, i narcos, il neoliberismo, i mercenari… ma l’epica si sfilaccia. Il nemico non ha più ideologia, è il caos globale. Le Carré si sposta allora verso la satira, la denuncia, ma qualcosa si è spezzato: la leggenda ha perso la sua funzione. Smiley, che ha vinto la sua guerra, è ormai un uomo stanco. E la sua vittoria, forse, è la sconfitta dell’umanesimo stesso.
L’innominabile ideologia
I romanzi di Le Carré non sono mai veramente “contro” l’Occidente. Sono romanzi profondamente occidentali, intrisi di quella cultura anglosassone che preferisce la colpa alla collera, il dubbio alla rivoluzione. Ma proprio per questo, la loro funzione ideologica è potentissima: raccontare un mondo moralmente incerto in cui, tuttavia, si sa sempre chi ha il diritto di raccontarlo.