“Panican” e strategia. Trump rivendica il primato della politica su quello dei mercati

"Panican" e strategia. Trump rivendica il primato della politica su quello dei mercati "Panican" e strategia. Trump rivendica il primato della politica su quello dei mercati

Per trent’anni l’Occidente ha camminato con il pilota automatico. I mercati facevano il prezzo e la politica firmava in calce, magari con qualche postilla. Wall Street era il cuore pulsante, i governi il sistema circolatorio. La globalizzazione aveva il volto dei consigli di amministrazione e l’agenda economica veniva scritta da fondi, banche e multinazionali. Poi è arrivato Donald Trump. E ha preso la penna.

Con il secondo mandato appena cominciato, Trump ha lanciato un messaggio che va oltre i dazi e le polemiche: la Casa Bianca torna ad essere la cabina di regia dell’economia nazionale. Non più semplice gestore dell’equilibrio tra domanda e offerta, ma regista esplicito delle priorità strategiche. Una mossa che spaventa i mercati e galvanizza una parte dell’elettorato. E che rappresenta un cambio di paradigma.

Il termine coniato dal presidente, “panican”, è comparso per la prima volta in un post pubblicato su Truth Social il 7 aprile 2025. Si tratta di una crasi tra “panic” e “American”, usata da Trump per schernire coloro che reagiscono in modo eccessivamente allarmistico alle sue politiche economiche. In quel messaggio, l’ex tycoon ha invitato gli americani a non farsi prendere dal panico, bollando come “deboli e stupidi” i membri del “partito dei panican”. Una trovata linguistica che, nella sua rozzezza comunicativa, racconta bene il ribaltamento di prospettiva: ora è la politica a prendere l’iniziativa, e chi si agita è fuori dal gioco.

Trump non si rivolge soltanto agli elettori della Rust Belt, ma anche agli amministratori delegati di Manhattan, ai trader, ai manager e ai partner commerciali internazionali. Il messaggio è chiaro: non saranno più loro a dettare le condizioni. Le regole ora le scrive chi è stato eletto.

Lo dimostra la recente escalation nei rapporti con la Cina. L’amministrazione ha imposto dazi del 125% su centinaia di miliardi di dollari di merci in arrivo da Pechino, escludendo al contempo oltre settanta paesi da nuove tariffe grazie a una moratoria di 90 giorni. A gestire la partita c’è Scott Bessent, Segretario al Tesoro, ex braccio destro di George Soros e figura chiave del nuovo corso trumpiano: interventista, protezionista, risoluto.

L’effetto sulle borse è stato immediato: un’alternanza febbrile di vendite e rimbalzi. Wall Street ha tremato e poi ha toccato picchi storici, con il Dow Jones che ha guadagnato quasi 3.000 punti in un solo giorno. Un risultato sorprendente che riflette la natura profonda del mercato finanziario: volatile, irrazionale, spesso emotivo. Ma anche straordinariamente reattivo a ogni segnale di potere. Come se, dietro ogni operazione algoritmica, si celasse ancora l’antico istinto umano: cercare protezione, capire chi comanda.

In questo scenario, titoli come “la borsa brucia miliardi” abbondano sulla libera stampa, ma in borsa non si brucia nulla: il valore di mercato è un dato virtuale, un prezzo teorico che cambia ogni secondo. I soldi scompaiono solo se qualcuno vende in perdita. Il mercato è fluttuazione, non combustione. E la volatilità è la sua natura, non un incidente di percorso.

Trump cavalca il panico mediatico per ridefinire le coordinate. Sta dicendo all’America che è finito il tempo in cui si obbediva ai mercati come a una divinità laica. Adesso il tempio è il potere politico. E chi siede alla Casa Bianca non fa da notaio alle decisioni delle agenzie di rating, ma stabilisce lui stesso la gerarchia delle priorità: lavoro, industria, sovranità.

La Cina, per anni celebrata come campione dell’integrazione economica globale, non ha mai accettato la separazione tra Stato e impresa. Ora anche gli Stati Uniti sembrano voler percorrere quella strada, sebbene con metodi diversi. Si parla di sicurezza, di resilienza, di controllo delle filiere. Parole che fino a poco tempo fa suonavano stonate nel lessico della globalizzazione. Ora sono centrali.

E l’Europa? È spettatrice, ma non più indifferente. A Bruxelles si parla sempre più apertamente di “politica industriale”, un termine che fino a pochi anni fa sembrava un residuo bellico. Berlino valuta misure per riportare la produzione strategica nel continente. Parigi punta su digitalizzazione e controllo pubblico di settori chiave. Persino l’Italia, storicamente ancella dei vincoli di bilancio, comincia a discutere di golden power e sovranità tecnologica.

Questo ritorno della politica non è privo di contraddizioni. Ogni decisione comporta rischi: isolamento, inflazione, guerre commerciali. Ma dietro le mosse di Trump non c’è solo propaganda elettorale. C’è una visione: gli Stati devono smettere di inseguire i mercati e tornare a governarli. Anche a costo di dispiacere a chi guadagna in un mercato senza confini.

Wall Street non sta a guardare. Si adatta, entra nei palazzi, influenza i decisori. Ma per la prima volta dopo decenni, non detta più da sola il ritmo. La musica ora arriva da Washington. Ed è un cambiamento che, piaccia o meno, è già iniziato.


Articolo pubblicato originariamente in inglese qui.