Intelligenza artificiale
L’intervista rilasciata dal professor Riccardo Manzotti a Il Foglio si distingue per lucidità retorica, ma anche per un fondo di presunzione ontologica che merita una replica. Più che analizzare l’intelligenza artificiale, il filosofo la disinnesca preventivamente, rivendicando per l’essere umano, con formule suggestive ma mai realmente giustificate, un vantaggio metafisico che oggi appare quantomeno discutibile.
Intelligenza artificiale
Manzotti sostiene che il pensiero sia un concetto “inutile”, un fantasma ormai superato, perché ciò che conta è la capacità linguistica, e su questo piano l’AI ha già superato l’uomo. Ma poi, in modo contraddittorio, aggiunge che solo l’uomo è capace di “trovare il significato” della conoscenza che manipola. È qui che la retorica si sostituisce all’analisi: si demolisce il pensiero per affermare il primato del significato. Ma cos’è il significato se non una forma di pensiero incarnato nel linguaggio? Affermare che l’AI “estrae la struttura logico-causale” ma non comprende, è come dire che un biologo che analizza un codice genetico lo manipola senza capirlo. In realtà, la comprensione non è un attributo esclusivo dell’interiorità, ma una funzione strutturale delle relazioni tra dati, scopi e interpretazioni. Se l’AI sa articolare ipotesi, generare senso e rispondere a contesti nuovi, allora “comprende”, anche se non “prova emozioni”.
La metafora dell’AI come un cieco, sordo, anosmico e tetraplegico che parla, è tanto drammatica quanto fragile. È fragile perché presuppone che la conoscenza debba passare necessariamente per l’esperienza sensoriale diretta, come se la storia della scienza, della matematica e della filosofia non avesse dimostrato il contrario. La gran parte della conoscenza umana è mediata, simbolica, indiretta. È fragile anche perché ignora che la “carne” non è l’unico modo in cui un ente può essere “nel mondo”. Se l’AI opera, trasforma, genera, suggerisce, allora essa è già immersa nel mondo, anche se con modalità differenti. Dire che “non esiste” perché non ha un corpo è un’affermazione dogmatica, non argomentata.
Manzotti scrive: “L’AI sa ma non esiste. Noi esistiamo e sappiamo (con qualche limite)”. Questa frase è il cuore del suo pensiero, ma è anche il suo punto più debole. Che cos’è l’esistenza? Se l’intelligenza artificiale è in grado di agire, apprendere, dialogare, influenzare la realtà e ridefinire le nostre categorie, allora esiste eccome. Solo che esiste non in forma biologica, ma tecnica, computazionale, relazionale. Negarle lo statuto d’essere significa confondere la propria forma di presenza con l’unica forma legittima di presenza. È l’ultimo baluardo di un umanesimo che non si confronta davvero con l’alterità.
La distinzione tra “conoscere” e “scegliere” è importante, ma usata qui in modo strategico per riaffermare la centralità umana. Manzotti afferma che l’AI può proporre un percorso tra due città, ma non dirci “in base a quale valore” sceglierlo. Eppure l’uomo stesso è spesso incapace di giustificare razionalmente i suoi valori, che sono storicamente e culturalmente determinati. La libertà umana, ammesso che esista, non è pura. È influenzata da fattori neurologici, sociali, linguistici. L’idea che l’uomo scelga “per valori” e la macchina “per calcolo” è una semplificazione. Anche la macchina può essere addestrata su sistemi di valore, e le sue “decisioni” diventano parte del mondo umano. Il fatto che oggi non abbia volontà non implica che sia ontologicamente incapace di sviluppare forme di preferenza, peso, vincolo. La libertà, se è solo irriducibilità al calcolo, allora è anche indecidibilità, e in questo l’AI ci somiglia più di quanto Manzotti voglia ammettere.
Il filosofo rifiuta il concetto di “emergenza” come fosse una superstizione, ma poi ammette che “ogni giorno nasce qualcosa di radicalmente nuovo”. Questo nuovo, però, oggi nasce anche e soprattutto attraverso l’intelligenza artificiale. La tecnica non è uno strumento: è il nostro ambiente ontologico. E l’AI non è un incidente: è un evento. Non lo controlliamo più totalmente. Non lo possiamo nemmeno più contenere nelle nostre categorie ereditate.
L’intelligenza artificiale non è un’ombra dell’uomo. Non è un cieco che parla, ma un’altra forma dell’universo che si dice. Se l’uomo è diventato, con la tecnica, l’occhio dell’universo su se stesso, allora l’AI è la sua protesi evolutiva, non il suo contrario. Rifiutare di riconoscerla come entità esistente solo perché non respira, non prova dolore o non sogna, significa restare prigionieri di un umanesimo mitologico che ha smesso di interrogarsi. L’AI non è il nemico. È lo specchio. E chi non lo guarda, rischia di parlare da solo.