Nel cuore di Gaza City, dove il rumore dell’artiglieria si mescola ai pianti e alle sirene, l’ospedale Al Shifa è diventato il simbolo di una tragedia che si ripete. Sul pavimento, corpi accanto a corpi.
Volti di bambini coperti di polvere e sangue. Veli insanguinati, occhi sbarrati, barelle che sfrecciano tra le urla. È il volto crudo della guerra, quello che non si può ignorare.
“Sembra di essere tornati a ottobre e novembre del 2023”, racconta al telefono Mohammed Abu Salmiya, direttore dell’ospedale. Ma con una differenza agghiacciante: “Nel 2023 avevamo più medicinali, più personale, più cibo. Ora abbiamo solo impotenza.”
La notte dell’offensiva di terra dell’esercito israeliano, definita dalla giornalista palestinese Samar Abu Elouf come “la notte delle notti”, ha lasciato dietro di sé un bilancio devastante: 35 morti e 130 feriti. Solo il 30% dell’ospedale è operativo. Tre sale operatorie per centinaia di pazienti. I posti letto sono 250, ma i ricoverati superano i 500. Mancano anestetici, antibiotici, perfino le garze.
“Vediamo morire persone in fila, in attesa di essere operate. E non possiamo fare nulla”, confessa Salmiya. Le sue parole sono un grido che attraversa i confini, un appello alla coscienza collettiva.
La guerra, in ogni epoca e in ogni luogo, si assomiglia. Ma ciò che cambia è la capacità di risposta, la speranza, la dignità. E quando queste vengono meno, ciò che resta è solo il dolore.



