Israele Hamas Gaza
Israele lancia l’offensiva “Carri di Gedeone” e Hamas torna al tavolo dei negoziati
Dopo mesi di stallo, riprendono in Qatar i colloqui tra le parti, mentre a Gaza si intensifica l’azione militare. Trump atteso nella regione. Abbas rompe il silenzio: “Hamas deponga le armi”.
Una nuova e violenta ondata di bombardamenti nella Striscia di Gaza ha fatto da preludio, nelle ultime 48 ore, alla ripresa dei colloqui tra Israele e Hamas. È il Qatar, ancora una volta, a ospitare le delegazioni. Lo fa in un momento paradossale: mentre le IDF (Forze di difesa israeliane) avviano la massiccia offensiva terrestre chiamata “Carri di Gedeone”, i leader di Hamas si dichiarano disponibili a trattare una tregua. Segno che la pressione militare, almeno per Tel Aviv, sta dando frutti. Ma il quadro resta incerto.
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L’offensiva come leva negoziale
L’operazione, iniziata nella notte tra venerdì e sabato, ha colpito duramente le aree centrali e settentrionali della Striscia, in particolare Jabalia, Beit Lahia e Deir al-Balah. Secondo le autorità sanitarie locali, più di 300 persone sarebbero state uccise da giovedì, portando a oltre 53.000 le vittime dall’inizio della guerra. Israele, che contesta la veridicità di queste cifre, ribadisce di colpire obiettivi militari e accusa Hamas di usare la popolazione civile come scudo.
L’obiettivo dichiarato dell’operazione è duplice: liberare gli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani e smantellare in modo definitivo la struttura militare di Hamas. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha parlato di una “fase decisiva” del conflitto, mentre il premier Netanyahu ha autorizzato la delegazione israeliana a rimanere a Doha per nuovi colloqui. “C’è un cauto ottimismo”, riferisce Channel 12.
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Torna il negoziato, ma resta la distanza
Taher al-Nono, portavoce di Hamas, ha confermato a Reuters che i colloqui sono ripresi “senza precondizioni”. Secondo fonti qatariote, si sta discutendo una tregua di due mesi durante la quale si cercherebbe un accordo globale. Sul tavolo, un’ipotesi: rilascio di 10 ostaggi israeliani ancora vivi in cambio della liberazione di 200-250 detenuti palestinesi e una tregua temporanea di 45 giorni.
Israele punta al cosiddetto “quadro Witkoff”, proposto dagli Stati Uniti a marzo, che prevede uno scambio graduale di ostaggi e un cessate il fuoco temporaneo. Hamas, finora, ha sempre respinto soluzioni parziali, chiedendo la fine definitiva delle ostilità.
La mossa di Abbas: “Consegnate le armi”
Mentre le bombe cadono su Gaza e le diplomazie si muovono, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas rompe gli indugi e lancia un appello forte: “Hamas e gli altri gruppi devono consegnare le armi e lasciare il potere a Gaza”. Lo ha detto dal vertice della Lega Araba a Baghdad, denunciando “un progetto coloniale genocida” contro i palestinesi.
Il riferimento è chiaro: dal 2007 Gaza è sotto il controllo di Hamas, dopo una guerra intestina con Fatah. E ogni tentativo di riconciliazione tra le due fazioni palestinesi è finora fallito, affondato tra diffidenze reciproche, interessi divergenti e il peso degli attori esterni.
Dinamiche regionali e isolamento di Hamas
La ripresa dei negoziati avviene in un contesto geopolitico sempre più ostile a Hamas. Non solo l’Autorità Nazionale Palestinese chiede apertamente il disarmo e la restituzione del potere, ma anche alcuni paesi arabi tradizionalmente vicini alla causa palestinese – come l’Egitto e la Giordania – stanno manifestando insofferenza verso l’intransigenza del gruppo islamista. Il Qatar resta il mediatore principale, ma si muove con cautela, preoccupato di non apparire sponsor unilaterale di Hamas.
In parallelo, la normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni paesi del Golfo, avviata con gli Accordi di Abramo, ha ridotto ulteriormente lo spazio diplomatico del movimento. L’Iran resta l’unico vero sponsor regionale, ma anche Teheran, dopo la risposta aerea israeliana dell’aprile scorso, sembra più prudente nel voler alimentare direttamente un conflitto prolungato.
Una guerra che ha cambiato volto
Rispetto alle prime fasi del conflitto, l’attuale operazione “Carri di Gedeone” segna una svolta tattica: l’obiettivo non è più solo colpire Hamas, ma occupare stabilmente aree chiave per impedire al gruppo di controllare logistica, aiuti e comunicazione. È una guerra di logoramento, ma anche una guerra di simboli: mostrare chi ha il controllo e chi detta le condizioni. In questa logica, anche il ritorno al tavolo negoziale è parte di una strategia di forza.
Israele, che ha già dichiarato di voler mantenere una presenza militare “a tempo indeterminato” in alcune zone di Gaza, sa di camminare su una linea sottile: tra la necessità di garantire sicurezza interna e il rischio di un coinvolgimento prolungato in una guerra asimmetrica dalle ricadute internazionali imprevedibili.
Il fattore tempo e la pressione interna
Con il passare delle settimane, la pressione interna sul governo Netanyahu cresce. Le famiglie degli ostaggi marciano, protestano, tengono conferenze stampa. Chiedono risposte e soluzioni. Allo stesso tempo, l’opinione pubblica israeliana è divisa tra chi vuole la fine del conflitto a ogni costo e chi ritiene che una tregua senza la sconfitta totale di Hamas sia una resa inaccettabile.
A Gaza, la popolazione civile è al limite. Gli spostamenti forzati, la fame, l’assenza di strutture sanitarie, il collasso infrastrutturale rendono il territorio un inferno umanitario. Le ONG parlano di una “catastrofe silenziosa” e lanciano appelli quotidiani per corridoi di soccorso. Ma il rumore delle armi copre ogni voce.
Scenari futuri: tregua, transizione o escalation finale?
Gli scenari restano aperti. Un’intesa di tregua temporanea potrebbe aprire la strada a un accordo più ampio, ma nulla lascia pensare che Hamas sia disposto a disarmare davvero. Allo stesso tempo, una nuova offensiva prolungata rischia di impantanare Israele in una gestione territoriale onerosa e politicamente rischiosa.
Un’opzione discussa sottotraccia da mesi è l’insediamento temporaneo di una forza internazionale o araba a Gaza per garantire l’ordine e avviare una transizione. Ma senza un chiaro disimpegno di Hamas e un mandato ONU, appare poco realistica.
La vera domanda, dunque, resta sospesa: questa guerra può ancora produrre una soluzione politica, o sta solo cambiando forma? La risposta, probabilmente, dipenderà da ciò che accadrà nei prossimi dieci giorni a Doha — e da quanto il mondo sarà disposto a farsi carico di una pace che, per ora, nessuno sembra davvero voler costruire.
