La notizia dell’arresto, da parte della Procura generale di Tripoli, del generale libico Almasri ha scatenato un’ondata di imbarazzo e nervosismo a Palazzo Chigi. Ha riaperto un caso spinoso che aveva già messo in difficoltà l’esecutivo italiano mesi fa.
Nel momento in cui la notizia è giunta, si è subito innescata la ricerca di una versione ufficiale da diffondere. Il contesto era tale che nessuno sembrava disposto ad assumersi la responsabilità diretta. L’esitazione e il silenzio iniziale sono stati spezzati solo a fine giornata. Infatti, fonti anonime di governo hanno rilasciato una dichiarazione volta a giustificare l’operato passato dell’Italia.
Secondo le fonti, l’esecutivo era “ben a conoscenza” del mandato di cattura libico già dal 20 gennaio 2025. A quella data, il Ministero degli Esteri avrebbe ricevuto una formale richiesta di estradizione da parte della Libia.
Le stesse fonti hanno sostenuto che è proprio per questa ragione che “il governo italiano ha giustificato alla Corte Penale Internazionale (Cpi) la mancata consegna di Almasri. Inoltre, la sua immediata espulsione proprio verso la Libia”. In sintesi, l’Italia avrebbe agito in base alla richiesta libica, privilegiandola rispetto a eventuali procedure internazionali.
Tuttavia, questa narrazione si scontra con una serie di dati di fatto. Questi ne mettono in seria discussione la credibilità e la tempistica.
La versione del governo che giustifica l’espulsione con la richiesta di estradizione è messa in crisi dalle date. La richiesta di estradizione libica è stata depositata al Ministero della Giustizia la mattina del 22 gennaio. Tuttavia, Almasri era già stato rispedito in Libia un giorno prima, il 21 gennaio.
Inoltre, il generale non fu tecnicamente estradato a Tripoli, come previsto da un iter legale concordato. Fu invece espulso perché ritenuto un soggetto pericoloso per la sicurezza nazionale italiana. Una procedura amministrativa molto più rapida e con motivazioni diverse da una consegna giudiziaria.
Il coinvolgimento di Nordio in questa vicenda resta centrale. La gestione del caso da parte dell’Italia sembra aver violato un obbligo internazionale. Il governo avrebbe dovuto comunicare immediatamente l’operazione all’Aja, come previsto dallo statuto di adesione alla Cpi. Tuttavia, scelse di farlo sapere solo a maggio scorso, a distanza di tre mesi, quando i ministri coinvolti dovettero difendersi pubblicamente.
A peggiorare il quadro, c’è la constatazione che l’arresto in Libia è avvenuto ben undici mesi dopo l’espulsione dall’Italia. Questo è un elemento che confuta ulteriormente la tesi che l’azione italiana fosse strettamente coordinata e motivata dall’imminente arresto libico.
La “versione ufficiale” fornita dalle fonti anonime è stata, di fatto, già confutata dalla stessa Corte Penale Internazionale.
L’imbarazzo a Palazzo Chigi è pertanto giustificato. Il tentato chiarimento solleva più dubbi di quanti ne risolva. Lascia l’impressione di una gestione opaca e in ritardo del delicato caso internazionale.



