Siria, Israele e Turchia seguono gli sviluppi del conflitto tra Russia e Nato: la prima per cercare una via d’uscita dal conflitto, il secondo per timore che a beneficiare di questo scontro fra titani, in Medio Oriente sia l’Iran; ma Ankara vuole di pù
Siria: la zona morta
L’agenzia di stampa siriana di Stato Sana, ha riferito che nelle prime ore del 7 febbraio, Israele ha lanciato un attacco missilistico poco a Sud di Damasco, uccidendo due civili e provocando danni materiali. Secondo una fonte militare, citata da Sana, il sistema di difesa antimissile siriano avrebbe abbattuto la maggior parte dei missili lanciati da Tel Aviv. Diversa la ricostruzione dell’Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdu), con sede a Londra, secondo cui l’operazione mirata di Israele avrebbe colpito due depositi, uno di armi e l’altro di munizioni, utilizzati dalle milizie sciite, in prossimità dell’aeroporto di Damasco. A gennaio, d’altronde, i raid dell’aviazione israeliana avevano ucciso due soldati siriani e quattro miliziani sciiti, ma operazioni di questo genere si ripetono con frequenza variabile dal 2011 e prendono di mira le postazioni dell’esercito governativo siriano e gli avamposti delle milizie sciite e dei combattenti legati al partito sciita libanese Hezbollah. Intanto, l’Osdu ha riportato che il 6 marzo 15 soldati siriani sono stati uccisi e altri 15 sono rimasti feriti in un’imboscata dei cartelli del jihad dell’autoproclamato Stato islamico (Isis) contro un autobus dell’esercito, nella regione desertica centrale. Dall’inizio dell’anno, sono 61 le vittime dell’Isis tra i soldati siriani e le milizie sciite, ma l’assalto di maggiori proporzioni è stato quello compiuto il 20 gennaio contro la prigione di Ghwayran, nel Nord-Est, gestita dalle Forze democratiche siriane (Fds), che sono riuscite a riprenderne il controllo solo sei giorni dopo. Il 3 febbraio, inoltre, il presidente statunitense Joe Biden ha dichiarato che le forze speciali statunitensi avevano effettuato raid contro postazioni dell’Isis, uccidendone uno dei capi, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Quraishi. Bilancio ufficiale: 13 civili uccisi, di cui 6 bambini e 4 donne.
Israele: Mosca val bene uno shabbat
Il 5 febbraio, il primo ministro israeliano Naftali Bennett si è recato a Mosca per un incontro bilaterale con il presidente russo Vladimir Putin, con cui ha discusso per oltre tre ore della guerra in Ucraina e della numerosa comunità ebraica che vi si trova. A seguire, colloquio telefonico con il presidente ucraino Vloldymyr Zelensky e, infine, il tour europeo tra il reale e il virtuale: viaggio in Germania per incontrare il cancelliere Olaf Scholz e conversazione telefonica con il presidente francese Emmanuel Macron. La visita al Cremlino, peraltro, è stata la prima in Russia di un capo di Stato tradizionalmente alleato di Washington, dall’inizio delle ostilità, ed è avvenuta di sabato, in barba al divieto ebraico di viaggio, nonostante Bennett si definisca un ebreo osservante. Ad accompagnarlo, inoltre, c’era Zeev Elkin, ministro dell’Edilizia, originario dell’Ucraina e già collaudato dall’ex primo ministro Benjamin Netanyahu come interprete russo-ebraico nelle conversazioni con Putin. Israele, dunque, continua a scegliere la linea dell’equilibrio: ad esempio, malgrado il suo storico legame con gli Usa, ha deciso di non inviare armi a Kiev, ma solo squadre di medici e un ospedale da campo per curare i rifugiati. Un altro argomento di discussione è stato il negoziato internazionale sul programma nucleare iraniano, che sta volgendo al termine. Tel Aviv sa che le relazioni tra Iran e Russia si sono intensificate negli ultimi anni, soprattutto durante la presidenza Usa di Donald Trump, che su Tehran aveva optato per una politica di massima pressione. Infatti, il ministro degli esteri Sergej Lavrov ha chiesto agli Usa la garanzia che le sanzioni imposte a Mosca non incidano sulle possibilità di rilanciare l’accordo congiunto del 2015.
Effetto farfalla
Tel Aviv teme quindi che un buon esito delle trattative possa accrescere il peso geopolitico iraniano. Inoltre, beneficiando del benestare di Mosca ai suoi raid contro le postazioni iraniane in Siria, non vuole esporsi troppo in difesa dell’Ucraina per non infrangere l’idillio. In realtà, secondo il quotidiano panarabo con sede a Londra Al-Quds al-Arabi, la guerra in Ucraina imbarazza Israele soprattutto a causa della sua incessante attività di espansione della colonizzazione nei territori palestinesi e della brutale repressione delle proteste, che lo rendono in qualche modo omologo della Russia. Non a caso, il laburista britannico Jeremy Corbyn, il 24 febbraio, appena iniziato l’attacco russo, ha lanciato un appello a sostenere il riconoscimento dello Stato di Palestina, denunciando la colonizzazione israeliana e le sofferenze dei profughi palestinesi. A proposito di questi ultimi, il sito di informazione Middle East Monitor parla di una solidarietà selettiva euroatlantica, che differenzia la prospettiva da cui si guardano i rifugiati ucraini e mediorientali. In tale contesto tenta di inserirsi la Turchia, che ultimamente ha instaurato relazioni costruttive con l’Iran e di cooperazione tattica con la Russia (con cui condivide peraltro il bacino strategico del mar Nero), in particolare per quanto riguarda i conflitti in Siria e nel Nagorno Karabakh. Come Israele, Ankara è sotto i riflettori per la propensione all’uso della macchina bellica: le si rimproverano soprattutto i ripetuti attacchi contro le regioni a maggioranza curda in Siria, il dispiegamento di truppe in Libia, a sostegno delle forze politiche vicine ai Fratelli musulmani, l’uso di contingenti paramilitari e mercenari e il sostegno a gruppi islamici radicali armati. Senza considerare l’occupazione di Cipro Nord, giustificata come reazione al tentativo di annessione dell’isola da parte della Grecia.
La marcia turca
Nondimeno, a differenza di Israele, la Turchia, invece di scontrarsi frontalmente con l’Iran, preferisce evitarne l’eccessiva ascesa geopolitica con mezzi meno ostili, ad esempio integrando Tehran in un sistema di accordi che le attribuiscano un ruolo delimitato negli equilibri regionali. Nondimeno, le ambizioni turche si estendono oltre questo livello strategico. Il 7 marzo, il ministro degli esteri turco Mevlut Çavuşoğlu ha annunciato l’incontro, previsto tre giorni dopo, tra i suoi omologhi russo e ucraino, ad Antalya, a margine di un congresso diplomatico internazionale. Più volte, negli ultimi mesi, Ankara si era proposta come mediatrice, prima per favorire i negoziati tra Russia e Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato), poi per indurre alla trattativa Mosca e Kiev. Non solo in virtù dei discreti rapporti con entrambe, ma anche per il peso che trae dai legami storici preservati, e di recente ravvivati, con le popolazioni turcofone e musulmane che vivono in Russia (circa 14 milioni, secondo le stime) e in Asia centrale. Malgrado la crisi economico-finanziaria, e facendo leva sul militarismo e sulla capacità di proiezione in diverse regioni strategiche del globo, Ankara vuole la sua fetta di potere, qualunque assetto geopolitico uscirà dalla crisi attuale.