La Corte di Assise di Venezia ha recentemente emesso una sentenza riguardo al caso di Giulia Cecchettin , la giovane donna brutalmente uccisa con ben 75 coltellate.
La sentenza ha sollevato forti discussioni sul significato della motivazione attribuita all’assassino, Filippo Turetta.
La Corte, infatti, ha sottolineato che il numero elevato di colpi inferti alla vittima potrebbe essere interpretato come un “segno di inesperienza”, suggerendo che Turetta non avesse la competenza o l’esperienza necessaria per infliggere colpi più “efficaci”, come quelli che avrebbero potuto portare a una morte più rapida. Inoltre, i giudici hanno evidenziato che il giovane non sembrava avere l’intenzione di “infierire”, ma piuttosto agiva in un contesto di caos emotivo, forse dovuto alla sua inesperienza in situazioni di violenza. Dissentire con rispetto riguardo a queste dichiarazioni è d’ obbligo: chiunque si munisve da casa di una arma e punta un coltello e colpisce più volte, non è inesperto, è un assassino.
È importante sollevare alcune riflessioni sulla natura di questa motivazione e sul modo in cui la giustizia affronta casi di violenza così gravi.
L’idea che l’inesperienza possa essere una scriminante, per l’elevato numero di colpi inferti, è impensabile, è fondamentale infatti interrogarsi su cosa realmente possa significare infliggere ben 75 coltellate, che non sono semplicemente il risultato di una persona che agisce in modo sprovveduto, ma piuttosto di una violenza “incontrollata e deliberata”, seppur eseguita da un giovane senza una preparazione specifica.
Non è raro che in atti di violenza così estremi, l’inesperienza porti a un’escalation incontrollata, ma questo “non riduce la gravità dell’atto”. Ogni colpo, ogni ferita inferta alla vittima, è un atto che ha una sua intensità e una sua gravità, indipendentemente dalla tecnica o dalla “competenza” dell’assassino. La violenza, in questo caso, non è meno orribile solo perché non inflitta da un esperto killer, che sì l’ avrebbe eseguita in modo più “professionale e pulito.
L’affermazione che Turetta non volesse “infierire” su Giulia è un’altra parte della motivazione che merita un’analisi attenta. La violenza di per sé è un atto di sopraffazione, e il fatto che l’autore non avesse l’intenzione consapevole di “infierire” potrebbe suggerire una sorta di distorsione psicologica o una reazione emotiva improvvisa. Tuttavia, è difficile considerare la brutalità di 75 colpi come un’azione casuale o priva di intenzionalità.
In questo caso, il concetto di “infierire” potrebbe essere troppo stretto e limitato. Anche se non vi fosse un intento di tortura, la quantità di violenza inflitta a Giulia è comunque estremamente significativa. In fondo, anche senza un desiderio di “sofferenza prolungata”, il risultato finale rimane lo stesso: la morte violenta di una persona, a causa di un atto che esprime una carica emotiva distruttiva e una determinazione dell’ assassino, preparato o meno ad uccidere. La tecnica non conta. Forse non voleva vederla soffrire e in agonia,ma che chi sferra quei colpi voglia annientare, è palese. Il numero delle coltellate inferte dice molto di più sulla crudeltà che sulla inesperienza del giovane. Con tutte le attenuanti del caso, ove ve ne siano, una riflessione in tal senso va fatta. Intanto infuriano le polemiche.
In un sistema giuridico, ogni sentenza è frutto di un percorso di valutazione e di interpretazione delle prove, e come cittadini è nostro dovere rispettare la decisione finale della Corte. Tuttavia, è altrettanto importante che tali decisioni non vengano mai considerate come conclusioni definitive e indiscutibili, ma come punti di partenza per una discussione continua sulla natura della giustizia e sull’interpretazione dei comportamenti umani, specialmente in situazioni estreme come quelle di violenza.
Nel caso specifico, c’è chi dissente rispettosamente con la motivazione che l’inesperienza e l’assenza di un intento di “infierire” possano essere riconsiderati per un atto di tale brutalità. La realtà dei fatti è che, indipendentemente dalla preparazione tecnica dell’autore, l’atto compiuto ha avuto conseguenze devastanti e non può essere ridotto a una mera questione di inesperienza. La violenza resta, in ogni sua forma, un crimine che merita di essere trattato con la massima serietà, senza attenuanti basate sulla presunta incompetenza di chi l’ha commessa.
Pur rispettando il giudizio della Corte, si può supporre che la valutazione della gravità dell’atto debba essere riconsiderata, evitando di minimizzare la portata della violenza a causa di un’iniziale mancanza di competenza, ponendo l’accento sulla premeditazione data dal possesso di un coltello. La giustizia deve riconoscere che la brutalità, la crudeltà esiste anche laddove vi è imperizia e giovane età, e che indipendentemente dalla sua tecnica o dall’ esecuzione, è sempre inaccettabile.
