Papa Francesco, se ne va il cuore più tenero al mondo



È morto Papa Francesco. E già nel dirlo si fa fatica a coniugare al passato un uomo che è stato, per il mondo intero, presenza viva, voce amica, sguardo che accoglieva senza giudicare. Se n’è andato in un giorno santo, quasi a completare un disegno più grande, quello di una vita spesa per ricucire le lacerazioni tra la Chiesa e l’umanità, tra il Vangelo e la strada.

Papa Francesco è stato prima di tutto un uomo. Non un titolo, non una funzione. Un uomo vero, col cuore aperto e la parola semplice. Un uomo che ha spezzato le cornici del protocollo per tornare all’essenza delle cose. Si è rifiutato di vivere nei fasti del Palazzo Apostolico, preferendo il piccolo appartamento di Casa Santa Marta. Diceva: “Non posso vivere da solo in un museo.” Scelse la mensa comune, i pasti condivisi, la porta sempre aperta.

Una volta, durante una visita pastorale, vide una suora in piedi per salutarlo. Le disse: “Siediti, sorella. Non stai davanti a un re.” Un’altra volta, durante un’udienza, si tolse lo zucchetto per scambiarlo con quello di un bambino che glielo aveva chiesto, con la naturalezza di chi chiede un dolce. Rispose con lo stesso linguaggio: semplice, diretto, senza mediazioni.

Il suo senso dell’umorismo era celebre: “Non ho mai conosciuto un traslocatore che seguisse un carro funebre,” diceva parlando dell’inutilità della ricchezza. Oppure quando, parlando del ruolo dei preti, ammoniva con ironia: “Un prete triste è un triste prete.” Con lui, anche la serietà più grave si poteva colorare di umanità.

Ma non era solo l’uomo fuori dagli schemi. Era anche un’anima grande, capace di vedere oltre. Durante un pranzo con i poveri, chiese ad ognuno come si chiamasse. Non fece discorsi, non parlò da pulpito. Ascoltava. Chiedeva da dove venissero, se avevano famiglia. Uno di loro gli disse: “Padre, tu ci guardi come se fossimo persone.” E lui rispose: “Perché lo siete.”

Quando visitò un carcere, si inginocchiò davanti a detenuti colpevoli di crimini gravi e lavò loro i piedi, come fece Gesù. Nessun filtro, nessun privilegio, solo il Vangelo vissuto.

Nel mezzo della pandemia, quella notte piovosa in una piazza San Pietro deserta, la sua figura solitaria sotto la pioggia, in preghiera silenziosa, diventò un’icona mondiale. Non servivano parole: bastava la sua presenza a dire che la Chiesa non abbandonava nessuno, nemmeno nei giorni più bui.

Era capace di grande tenerezza, ma anche di fermezza. Non aveva paura di dire che la Chiesa doveva aprire le porte, non chiuderle. Non temeva di parlare di accoglienza, di pace, di ambiente, di giustizia sociale, anche quando sapeva che avrebbe suscitato critiche. Diceva: “Preferisco una Chiesa incidentata piuttosto che malata per la chiusura.”

E ora, che se n’è andato, resta un vuoto. Ma è un vuoto pieno di memoria, di gesti, di parole che hanno lasciato il segno. Non ci resta che ripensare a lui come si pensa a un nonno buono, severo solo quando necessario, ma sempre pronto ad abbracciare.

E forse oggi, il miglior modo per ricordarlo è proprio fare quello che ci chiedeva ogni volta, con disarmante umiltà: “Non dimenticatevi di pregare per me.”
Lo faremo, Papa Francesco. Lo faremo. Anche tu. Ne siamo certi.