Verticali e soli. Le famiglie del futuro tra memoria arcaica e mutazione accelerata

Verticali e soli. Le famiglie del futuro tra memoria arcaica e mutazione accelerata

Quando i ricercatori dell’Istituto Max Planck per la Ricerca Demografica hanno pubblicato lo studio che per primo ha quantificato gli effetti della velocità demografica sulle reti parentali, pochi si aspettavano che ne emergesse un’immagine così radicalmente straniante. Il dato era semplice, quasi ovvio nella sua nudità: in molti paesi, specialmente quelli attraversati da una transizione demografica rapida, le famiglie stanno mutando la propria forma da larga a lunga. Si accorciano in larghezza, perché ci sono meno fratelli, meno cugini, meno zii. E al tempo stesso si estendono in altezza, perché aumenta la presenza simultanea di nonni, bisnonni, discendenti su più livelli. È una trasformazione che ha il tono dell’ineluttabilità e la forma della contraddizione. I legami aumentano in durata ma diminuiscono in ampiezza; si moltiplicano le generazioni coesistenti, ma si rarefanno i volti, le voci, gli incontri. La famiglia, nella sua più antica e riconoscibile incarnazione – crocevia di affetti, luogo di trasmissione e scambio, teatro di tensioni e rifugi – si ritira lungo l’asse verticale e si svuota sui lati.Ma sarebbe ingenuo pensare a questa metamorfosi come a un’anomalia storica. Non si tratta di un incidente del presente, né di un’invenzione del mondo moderno. La verticalizzazione delle famiglie ha precedenti concreti e ricorrenti nella storia umana, ed emerge ogniqualvolta si verificano alcune condizioni strutturali: una bassa natalità, un ritardo nella formazione dei nuclei, un allungamento della vita attiva degli anziani, una concentrazione delle risorse – materiali o simboliche – in pochi individui. Quando queste coordinate si sovrappongono, la famiglia si riconfigura. Accade oggi.

È accaduto molte volte in passato.Ciò che distingue la nostra epoca non è tanto la forma assunta dalla rete familiare, quanto la rapidità con cui si è prodotta questa mutazione.

In due o tre generazioni, dagli anni Cinquanta del Novecento ai primi decenni del ventunesimo secolo, siamo passati da famiglie estese e rumorose, in cui la parentela era una galassia densa e in espansione, a microcosmi chiusi e spesso isolati, in cui si vive accanto a un bisnonno ultranovantenne e si è figli unici senza cugini. La rete si restringe, si tende, si tende ancora. Fino a diventare un filo. E se fosse proprio questo il nodo?Le famiglie moderne non solo si verticalizzano. Si fragilizzano. Manca, nella maggior parte dei casi, quella trama orizzontale che per millenni ha reso la parentela una comunità diffusa. Non ci sono zii disponibili, né fratelli collaterali, né cugini quotidiani. Nessuna “tribù” urbana o rurale a sorreggere il peso della cura. I bisnonni sono vivi, ma spesso sono soli. I genitori reggono da soli il carico familiare. I figli, pochi, si trovano a essere nello stesso tempo figli, nipoti e futuri assistenti. Una posizione vertiginosa, priva di contorno. Ma per comprendere fino in fondo questa nuova condizione antropologica, è utile allargare lo sguardo e guardare lontano. Il tempo lungo può illuminare le pieghe del presente. Le società di cacciatori-raccoglitori, che per decine di migliaia di anni hanno costituito la forma di organizzazione dominante nella specie umana, vivevano in gruppi mobili composti da venti a cinquanta individui. Le bande erano spesso multigenerazionali, ma poco estese orizzontalmente. La coabitazione tra nonni e nipoti era comune, ma la presenza di numerosi fratelli o cugini era limitata dalla mobilità e dalla mortalità infantile. In compenso, la cura era diffusa e condivisa. Chiunque nel gruppo poteva prendersi cura dei piccoli. La verticalità esisteva, ma era bilanciata da un orizzonte comunitario. Nel mondo contadino europeo preindustriale, le famiglie nucleari convivevano spesso con un anziano. Il matrimonio era ritardato, la natalità non sempre elevata. In molte aree d’Europa, dalla Francia settentrionale all’Inghilterra, dai Paesi Bassi alla Germania, la famiglia era lunga ma non larga. Gli zii e i cugini erano lontani o assenti, e le responsabilità ricadevano in modo concentrato su un numero ristretto di membri. Tuttavia, il villaggio, la parrocchia, il vicinato garantivano una forma di continuità e vicinanza che oggi fatichiamo a ricostruire. Tra i Mosuo del Sichuan, popolazione matrilineare della Cina sud-occidentale, la casa è organizzata in verticale. Nonne, madri, figlie e nipoti convivono. I padri biologici restano al margine della struttura domestica. La rete parentale è profondamente verticale, ma sostenuta da un sistema simbolico, rituale e relazionale che ne equilibra gli scompensi. Non c’è isolamento, ma una diversa architettura della prossimità. Anche nel mondo romano e in quello etrusco, la parentela era concepita come una linea genealogica che attraversava le generazioni. La gens non si misurava sulla larghezza della famiglia, ma sulla sua profondità. Il tempo contava più dello spazio. L’identità si trasmetteva lungo l’asse paterno. E la famiglia – come struttura, come nome, come eredità – aveva il compito di durare.Negli Stati Uniti del diciannovesimo secolo, la coabitazione tra anziani e figli adulti era la norma. Poi arrivò la suburbanizzazione, la mobilità forzata, la logica dell’indipendenza. E la famiglia verticale venne rimpiazzata da quella nucleare, efficiente, produttiva. Ma oggi, complice la crisi abitativa, il debito, l’insicurezza economica, molti tornano a convivere con genitori e nonni. Non per tradizione, ma per necessità. Tutti questi esempi mostrano che la verticalità familiare non è affatto inedita. È una forma ricorrente, che emerge in epoche e contesti molto diversi tra loro. Ma ognuno di questi modelli era sostenuto da un ordine sociale che ne reggeva il senso. Una cultura condivisa, un’economia coerente, un linguaggio simbolico. Ciò che manca oggi è proprio questo: un contesto in grado di rendere abitabile la nuova forma. La famiglia moderna è verticale, ma senza architettura. È lunga, ma senza fondamenta. E questo la rende fragile. Le famiglie contemporanee assomigliano sempre più a gambi lunghi con poche foglie. Crescono in altezza, attraversando più generazioni, ma si assottigliano in larghezza. Viviamo più a lungo, ma siamo meno connessi.

Eppure, in questa fragilità si nasconde un potenziale. La verticalità, se abitata consapevolmente, può diventare una scala di cura, una struttura di ritorno, un laboratorio di intimità. Ma perché ciò accada, è necessario restituire alla famiglia il suo statuto concreto di luogo di trasmissione, presidio di prossimità, vincolo generazionale fondato sul dato biologico e sulla responsabilità reciproca. Non bastano le definizioni formali, né le ricostruzioni simboliche.In un’epoca che tende a disgregare per ricomporre secondo criteri astratti, la sfida sta proprio nel riconoscere ciò che resiste alla volontà di riduzione: il corpo familiare come realtà storica, sociale e naturale. Non tutto è fluido, non tutto è negoziabile. La tenuta delle società future dipenderà anche dalla capacità di preservare e coltivare ciò che la storia ha dimostrato essere essenziale: legami fondati su continuità, reciprocità, durata. La famiglia, rimane l’architrave della convivenza. Ma ha bisogno di contorni chiari, non di infinite interpretazioni. Ha bisogno di essere vissuta, non riscritta.