Essere “la più brava” è pura distopia. Intervista alla scrittrice Carolina Bandinelli
Essere donne non è mai stato facile soprattutto nell’epoca odierna in cui ci si ritrova molto spesso a duellare tra il ruolo di diventare mamme e quello di perseguire le proprie aspirazioni personali e professionali quando in realtà dovremmo vivere queste dimensioni con serenità senza dover scegliere tra l’una o l’altra.
Ne abbiamo piena testimonianza leggendo il romanzo La più brava di Carolina Bandinelli con una protagonista d’eccezione nella quale molte donne si identificheranno con facilità rintracciando le proprie aspirazioni, sogni, incertezze, dubbi e nevrosi.
Emma è una donna di trentasei anni che si è trasferita a Londra per diventare un’insegnante e ricercatrice in materie umanistiche. Ha una storia stabile da tanto tempo e finalmente sta coronando il sogno di acquistare una casa da arredare in base ai suoi desideri e bisogni. Nonostante tutto si sente “incompleta”, inquieta e angosciata tanto da non poter fare a meno di mettersi in discussione in vista di una cena a casa sua con le sue amiche, venute a trovarla dall’Italia.
In un monologo interiore prendono forma ricordi legati al passato, alla donna che era prima di trasferirsi a Londra, a quella piena di sogni e aspirazioni quando finalmente ha coronato il suo sogno di trasferirsi dall’Italia, a quella che non sente il bisogno di diventare mamma.
La più brava è un romanzo introspettivo che ci fa scoprire l’universo femminile sotto una prospettiva inedita grazie ad una scrittura veritiera, senza filtri, maschere e censure.
Dei sogni e delle incertezze delle donne d’oggi, di cosa significa vivere da expat e del personaggio di Emma che rimane impresso nella memoria del lettore conversiamo in questa esclusiva intervista con Carolina Bandinelli.
Com’è nata l’ispirazione per creare il personaggio di Emma?
Volevo cercare di dare vita a un personaggio femminile forte, che incarnasse alcune domande cardine attraverso cui si snoda la vita adulta delle donne. E poi confesso di aver dato a Emma molte parti di me stessa e della mia vita, soprattutto le ho donato le mie nevrosi, che lei indossa con eleganza e gentilezza.
Perché molte donne si identificheranno in lei?
Non lo so, spero che risuonino, spero che le donne che la incontrano trovino nel suo monologo interiore le parole che spesso non dicono per timore di essere giudicate. Emma è un personaggio che parla e pensa senza censura, che svela l’oscenità del proprio inconscio a chi ha voglia di ascoltare. E credo che se si va abbastanza in profondità siamo tutte simili, tutte assediate dalle stesse domande che sono quelle che la società in cui viviamo, e quella che chiamiamo “natura” (e che altro non è che una figura del linguaggio con cui ci riferiamo a ciò che non possiamo capire) ci pongono. Emma si interroga su cosa significa essere una donna, e su come si fa ad essere una donna adulta ed emancipata oggi, e non credo sia possibile – almeno per le donne della mia generazione, ma forse per tutte – farsi questa domanda, perché il punto è che, come scriveva Simone De Beauvoir, non sappiamo cos’è una donna, bisogna diventarlo.
Quanto secondo lei le donne di oggi nonostante le tante conquiste che hanno ottenuto perché sono ancora a duello tra la l’essere mamme e la realizzazione personale?
Per tanti motivi. Prima di tutto ci sono le questioni strutturali, e cioè la mancanza di supporto statale adeguato per la cura dei bambini, e questo fa sì che la responsabilità materiale verta soltanto sui componenti della famiglia nucleare, e soprattutto sulle donne, perché spesso viene dato per scontato che siano loro a doversi occupare di più dei figli per via della loro “natura biologica”. È interessante come la natura venga invocata come principio morale assoluto in alcuni casi – come in questo – e in altri invece venga del tutto soprasseduta, superata e vinta. Intendo dire che quando si tratta di giustificare lo squilibrio nel lavoro di cura ci si appella alla “natura”, ma è la stessa “natura” contro la quale ci battiamo, per esempio, per allungare le aspettative di vita. Comunque, al di là delle questioni filosofiche, sul piano pratico ci vorrebbero delle misure che bilancino lo squilibrio, come per esempio dei congedi di paternità adeguati.
Ma secondo me non bastano le riforme, ci vorrebbe una rivoluzione nel modo in cui si concepisce la cura delle nuove generazioni, bisognerebbe pensare e costruire un modello di cura espansa e socializzata. E poi, a parte il dato materiale, c’è la difficoltà di connettersi con il proprio desiderio autentico – di essere o di non essere madre – in un contesto in cui la pressione sociale è ancora altissima, e ci si aspetta che le donne abbiano dei figli, o vogliano averli. Culturalmente, bisogna ancora inventarci i codici per pensare a una donna che non vuole essere madre, bisogna ancora capire come riempire lo spazio che si crea laddove si decide di non intraprendere il lavoro di riproduzione. Questo non significa che non ci siano, e non ci siano mai state, donne che si sono poste questo quesito e che hanno trovato delle riposte, ma significa che non ci sono delle sceneggiature culturali collettive.
Quanto le pressioni sociali e culturali delineano l’identità di una donna come succede ad Emma?
Non è possibile eludere le pressioni sociali. Emma si confronta con esse, e cerca di distinguere tra il suo desiderio autentico e gli imperativi sociali, veri o presunti, ma il punto è che si tratta di una domanda impossibile, come tutte le domande interessanti.
Il confronto con le altre donne come accade ad Emma che si confronta con le sue amiche può essere deleterio o costruttivo?
Il confronto è inevitabile, ed è sia deleterio che costruttivo, dipende da come ci si posiziona al suo interno. Il problema è che spesso prende la forma della competizione, perché tutte vogliamo essere le più riuscite, “le più brave”, e talvolta, come succede a Emma, guardiamo alle altre con il sospetto e il timore che siano capaci di essere “donne” in un modo migliore del nostro. Emma a un certo punto capisce questo, capisce che ha guardato alle altre donne con invidia e sospetto ma che in realtà ne è affascinata, attratta, e questo cambia in parte il suo sguardo e il modo in cui si relaziona alle amiche.
Essere “la più brava” è utopia o può diventare realtà?
Essere “la più brava” è distopia: sarebbe davvero terribile riuscirci, t’immagini che solitudine, e che stasi mortifera, per fortuna che non è possibile.
Il suo romanzo è ambientato a Londra. Che legame ha lei con questa città cosmopolita?
Ci vivo da quindici anni, è il luogo che mi ha permesso di ricrearmi una famiglia d’elezione, di trovare un lavoro in accademia senza dover portare le borse di nessuno e cedere alle advances dei professori, è la città che mi ha permesso di girare per le strade vestita in tutù senza che nessuno battesse ciglio. Però io vivo una vita “molto italiana” (cit.). Ascolto radio rai, guardo X Factor edizione Italiana, organizzo un vero e proprio baccanale di una settimana per Sanremo…
Quanto di Carolina Bandinelli possiamo rintracciare in Emma?
Tanto. Non è possibile non rivelarsi se si scrive in modo onesto. Allo stesso tempo è anche impossibile dire “tutta la verità”.
A chi consiglia la lettura de La più brava?
Non lo so, lei a chi lo consiglierebbe?