Bufera sul video della madre della 14enne uccisa: ma Napoli è una questione antropologica

Back to the 2022 - Il pericoloso trend di TikTok del #whatieatinaday


A pochi giorni dalla morte di Martina, una ragazza di soli 14 anni, pare che la madre sia apparsa su TikTok a promuovere un panino, indossando una maglia con la foto della figlia.

Un’immagine che ha sollevato un’ondata di rabbia e sconcerto, difficile da contenere.

Nel video un noto tiktoker prepara il panino preferito della povera Martina e la madre della vittima, in un momento di estrema fragilità si espone così alla polemica, indossando una maglietta con la foto della ragazza uccisa.

Molti cittadini indignati hanno commentato: “Non c’è rabbia che basti per spiegare cosa significhi vedere il dolore trasformato in spettacolo.”

Questa vicenda non è solo raccapricciante dal punto di vista individuale,
è il sintomo più evidente di una malattia collettiva: una società che ha smarrito il limite, confondendo visibilità con valore, esposizione con elaborazione del lutto.

I social media, con la loro logica di monetizzazione e ricerca incessante di “contenuti”, hanno trasformato tutto in merce. E purtroppo, anche il lutto. Anche la morte di una ragazza di 14 anni.

L’indignazione, per quanto comprensibile e doverosa, non è più sufficiente. Serve una risposta concreta e azioni decise per arginare questa deriva. È necessario agire su più fronti per ristabilire un confine tra la sfera privata del dolore e la voracità del mondo digitale.


È impellente una legge che impedisca la monetizzazione e la promozione commerciale di contenuti legati a tragedie personali, familiari o che coinvolgano minori. Se una persona desidera condividere il proprio dolore, ha il diritto di farlo nel rispetto della propria dignità.

Ma nessuno dovrebbe poter guadagnare visibilità o denaro da un lutto, da un omicidio, o dalla perdita di un figlio. La dignità del dolore non può e non deve essere un prodotto da vendere.

È fondamentale che le piattaforme digitali adottino un protocollo etico stringente. Questo dovrebbe prevedere il blocco automatico della diffusione di contenuti con l’immagine di minori senza un consenso esplicito e verificato.

Un consenso che non sia solo quello dei genitori, ma garantito da un ente terzo indipendente, per assicurare una maggiore protezione e prevenire abusi.

Non basta educare i ragazzi all’uso consapevole del digitale; è altrettanto cruciale l’educazione digitale per gli adulti.

Troppe volte il danno non è opera dell’algoritmo, ma dell’ignoranza e della mancanza di consapevolezza nell’utilizzo degli strumenti digitali. È necessario formare gli adulti a comprendere le dinamiche, i rischi e le implicazioni etiche della condivisione online.

Martina non tornerà. Il suo volto, il suo ricordo, meritano il massimo rispetto. Possiamo e dobbiamo almeno evitare che la sua immagine venga trascinata nei meccanismi perversi di un sistema che, senza regole, si nutre del dolore altrui, trasformandolo in mero contenuto.

Non si tratta di censura, ma di rispetto. È una questione di civiltà. È tempo di agire per difendere la dignità umana di fronte alla dilagante spettacolarizzazione del dolore.

Tuttavia è vero che il video del panino del tiktoker e della mamma di Martina non si può comprendere se non si vive e conosce Napoli dal di dentro. Maldestramente e per una malintesa forma di coralità nell’ elaborazione del lutto, si è creato un raccapricciante precedente. Ma bisogna credere nelle intenzioni di chi lo ha realizzato, che cioè non fossero né di approfittare della fragilità della signora né di fare commercio di un dolore. Napoli è un mondo a parte. È morte e vita insieme, è tragedia e soluzione. È vero, non era da fare. In questa ottica si fa salva la buona fede e si accetta la mancanza di strumenti culturali di chi lo ha posto in essere. Un omaggio che stride, certo ma non una speculazione del dolore. Perché Napoli è una questione antropologica complessa.