Malgrado la fitta rete di colloqui diplomatici, in cui stanno cercando di emergere medie potenze regionali un tempo satelliti degli Stati uniti, la corsa agli armamenti e i nuovi contrasti lasciano intendere che per la pace ci sia poco impegno
La triangolazione geopolitica tra Spagna, Marocco e Algeria rischia di trasformarsi in un nuovo conflitto, ma l’Unione europea non ha ancora affrontato seriamente i contrasti a bassa intensità che la caratterizzano
Armiamoli… e poi?
L’impatto della guerra in Ucraina sull’economia globale, in maniera analoga alle ripercussioni dell’emergenza sanitaria mondiale degli ultimi due anni, insegna che nell’epoca del mercato unico creato dalla globalizzazione a guida statunitense degli anni ‘90 non ha più senso parlare di conflitti locali, né di sanzioni mirate. In primo luogo, perché ogni minima porzione del globo terracqueo è a suo modo integrata in un complesso ingranaggio, i cui equilibri risentono anche delle piccole scosse di assestamento periferiche. In tal modo, teatri di guerre come l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria, lo Yemen, la Libia e, da ultimo, l’Ucraina, diventano facile preda di sanguinosi conflitti per procura, nei quali le potenze maggiori, mondiali e regionali, finanziano e spesso armano i movimenti e le milizie che più rappresentano i rispettivi interessi, per poi abbandonarli al loro destino in caso di sconfitta o di mera perdita di interesse. Un esempio emblematico è costituito dai curdi, ai quali dai tempi della prima guerra mondiale le grandi potenze promettono terra e diritti per assicurarsene l’appoggio e beneficiare della loro capacità di controllo del territorio e della loro abilità nella guerriglia, per sacrificarli, infine, per poste in gioco maggiori: dall’accordo segreto Sykes-Picot, ai massacri dei tempi di Saddam Hussein in Iraq, fino alle Unità di difesa popolare (Ypg) curde siriane, prima sostenute e armate, ma poi lasciate in balia dell’operazione turca Sorgente di pace.
Guerre per procura e sanzioni: armi a doppio taglio
Nel caso dell’Afghanistan, invece, l’Operazione Cyclone, con cui i servizi segreti statunitensi (Cia) sostennero i mujaheddin impegnati nella resistenza contro l’invasione sovietica, spianò la via all’affermazione dei movimenti islamici radicali, tra cui quello dei talebani, al potere dopo il disastroso ritiro di Washington: in questo caso, considerando gli eventi dei primi anni 2000 (a partire dagli attentati del settembre 2001 negli Usa), la superpotenza mondiale ha subito direttamente le conseguenze del suo coinvolgimento in un conflitto locale. Similmente, in Iraq, dove i peshmerga curdi hanno tratto benefici dalla collaborazione con gli Usa, il sostegno alla componente sciita ha contribuito all’incremento del peso geopolitico dell’Iran, che a sua volta, negli ultimi anni, ha incrinato le solide alleanze che Washington aveva instaurato dalla fine della seconda guerra mondiale con le monarchie del Golfo e con Israele. Tali fratture si stanno manifestando chiaramente a margine della guerra in Ucraina: tra i paesi che non applicano le sanzioni euroatlantiche alla Russia ci sono infatti la Turchia, Israele e le monarchie del Golfo, che si mantengono su una linea di sostanziale neutralità, consapevoli delle conseguenze economiche di simili misure in un momento di forte interdipendenza tra i sistemi economici e finanziari dei singoli Stati. Ankara, Tel Aviv, Abu Dhabi e Riyadh sono accomunati, inoltre, da una diffidenza crescente nei confronti degli Usa, della cui alleanza hanno beneficiato in passato, tanto nell’economia, quanto nel settore degli armamenti e della difesa.
Israele e Turchia alla ribalta
La seconda ragione per cui in una fase di mercato globalizzato non ha senso parlare di conflitti locali, si vede all’opera nelle tragiche ripercussioni della guerra in Ucraina su economie già indebolite da due anni di emergenza sanitaria: dai problemi di approvvigionamento energetico, fino al ben più grave pericolo di carestie. In tale contesto di crisi, Israele, Turchia, Emirati arabi uniti (Eau) e Arabia saudita, potenze regionali mediorientali insoddisfatte del comportamento degli Usa nei confronti dei loro alleati, stanno emergendo con una propria linea diplomatica e geopolitica. Abu Dhabi e Riyadh più orientate al multilateralismo (nei termini di una pluralità di intese vantaggiose), Ankara e Tel Aviv più ancorate al militarismo e alla visione agonistica delle relazioni internazionali, che Pechino ha bollato come retaggio residuale della guerra fredda. L’intraprendenza diplomatica di Turchia e Israele (entrambe si sono proposte per una mediazione tra Russia e Ucraina), infatti, si fonda sulla sapiente associazione di delicati equilibri di alleanze con una potente industria bellica. Ultimamente, Ankara, nonostante la crisi economico-finanziaria, sta investendo cospicue somme di denaro pubblico nella produzione di armamenti, dai droni, ai veicoli blindati, fino ai missili balistici di ultima generazione. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan utilizza dunque le sue velleità geopolitiche per recuperare consensi sullo scacchiere interno, mentre ordisce distensioni e cooperazione con vecchi rivali, come Cipro, Armenia, Israele, Eau e la stessa Arabia saudita, incrementando il peso geostrategico regionale della Turchia. Similmente, Israele, che si sente minacciata dall’eventualità di dover concedere terre e diritti ai palestinesi per evitare accuse di brutalità e invasione. Il 31 marzo, infatti, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, per la prima volta ha votato in favore di una risoluzione che accerti le responsabilità israeliane in Palestina: 37 voti a favore, tra cui quello della Cina; 7 astenuti, tra cui Ucraina, Regno unito e India; tre contrari, tra cui gli Usa.
Marocco-Algeria: l’incertezza europea
Il 31 marzo, le autorità spagnole delle Canarie hanno annunciato che 48 migranti erano stati salvati presso l’isola di El Hierro, mentre altri 27 erano dispersi, a seguito del naufragio di un peschereccio diretto verso il “miraggio europeo” a largo delle coste marocchine. L’organizzazione non governativa spagnola Caminando Fronteras ha riferito che nel 2021, oltre 4.400 migranti, di cui 205 bambini, sono morti nei tentativi di raggiungere il territorio spagnolo, incluso quello delle isole Canarie, arcipelago strategico per il turismo spagnolo. Viaggi simili, infatti, sono aumentati da quando, nel maggio 2021, Madrid aveva accolto in un ospedale Brahim Ghali, cofondatore del Fronte Polisario e presidente della Repubblica araba democratica sahrawi (Rasd), malato di covid-19. Rabat, che lo considera un criminale di guerra, aveva accusato la Spagna di aver voluto compiacere l’Algeria, suo principale fornitore di gas naturale. Ne era nata una crisi diplomatica ispano-marocchina e Madrid aveva accusato Rabat di aver organizzato, per rappresaglia, la fuga di massa di oltre 8.000 migranti verso l’enclave spagnola di Ceuta. Intanto, la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Marocco, nel dicembre 2021, aveva riacceso le tensioni con l’Algeria, verso il cui confine le forze armate marocchine hanno creato ultimamente una nuova zona militare. La crisi si è successivamente aggravata a causa della decisione della Spagna di accogliere la proposta marocchina sull’autonomia del Sahara occidentale, che ha provocato la rottura tra Madrid e Algeri: quest’ultima accusa la Spagna di accontentare Rabat per evitare altri afflussi di migranti, annunciando di voler rivedere gli accordi tra i due paesi. Negli ultimi giorni, inoltre, il gigante petrolifero algerino Sonatrach non ha escluso un aumento del prezzo del gas solo per Madrid, la cui appartenenza all’Unione europea non sembra tuttavia sufficiente per attrarre l’attenzione di Bruxelles sulla questione.