La letteratura come atto di ribellione. Mario Vargas Llosa, gigante della parola e del pensiero, ci ha lasciati il 13 aprile 2025, nella sua Lima, lì dove tutto era cominciato: una vita sospesa tra il tumulto delle ideologie e il silenzio fertile della scrittura. Nato ad Arequipa il 28 marzo 1936, è stato uno degli ultimi veri intellettuali del nostro tempo, capace di coniugare impegno, invenzione, riflessione e disincanto.
Uomo del mondo e del Perù, ha vissuto tra Londra, Parigi, Madrid e i territori invisibili dell’immaginazione, portando con sé la fierezza della sua terra e la malinconia di chi non ha mai smesso di interrogare la realtà. Politicamente irrequieto, fu comunista nella giovinezza, liberale nella maturità, candidato alla presidenza del suo Paese nel 1990. E proprio in quel passaggio si manifesta la sua natura profonda: non ideologica, ma tragicamente e meravigliosamente umana.
Anticomunista per disillusione e per coerenza, fu anche protagonista di uno degli scontri più celebri della letteratura latinoamericana: quello con Gabriel García Márquez, suo sodale e avversario, amico e ombra. Un legame interrotto, poi silenziosamente riannodato, fino al contributo a un’edizione speciale di Cent’anni di solitudine: perché nella letteratura, le fratture si curano con la parola.
Premio Nobel nel 2010, nel celebre discorso Elogio della lettura e della finzione Vargas Llosa ci ha ricordato che la letteratura non è evasione, ma arma. “La letteratura è pericolosa: risveglia in noi un atteggiamento ribelle”, disse con voce ferma. È la frase di un uomo che ha sempre scritto contro: contro la menzogna, contro la dittatura, contro la rassegnazione.
Il ribelle è sempre stato lì, in ogni sua opera. Dai primi racconti di Los jefes (1959) al capolavoro La città e i cani (1963), dalla vertigine di La casa verde (1966) al labirinto politico di Conversazione nella Cattedrale (1969). I suoi romanzi sono spazi di resistenza, topografie del conflitto umano. Per Vargas Llosa, la memoria non è nostalgia, ma battaglia: “La memoria è una trappola, pura e semplice; altera, riorganizza sottilmente il passato per adattarlo al presente.”
Dialogava con Dostoevskij e con Rubén Darío, con Sartre, Popper e Camus. Camus, soprattutto, nella maturità. Dopo averlo contestato da giovane, lo abbraccia da adulto: perché nell’assurdo trova finalmente l’umano. “Non camminare dietro a me… Cammina soltanto accanto a me e sii mio amico”.
La sua è stata una scrittura totale: romanzi, teatro, saggistica, giornalismo. Sempre all’inseguimento dell’uomo. Sempre contro l’ipocrisia, il fanatismo, il conformismo. In La zia Julia e lo scribacchino (1977) ci regala una delle sue frasi più memorabili: “L’incertezza è una margherita i cui petali non si finiscono mai di sfogliare.”
In Il mestiere dello scrittore (2011) rivela la sua verità più intima: “Uno scrittore non sceglie i suoi argomenti, sono questi ultimi a sceglierlo.” E ancora: “Gli scrittori sono gli esorcisti dei propri demoni.” Come a dire che la letteratura, per lui, non è mai stata un mestiere, ma un destino.
Nel libro-intervista Davanti allo specchio (2023), Vargas Llosa si guarda, si confessa, si spoglia. E ci lascia un’eredità potente: “La letteratura rende sensibili e vivi”. Ed è questo che ha fatto per tutta la vita: ha reso il mondo più vivo, più inquieto, più libero.
Con lui se ne va uno degli ultimi grandi della parola scritta. Ma restano le sue opere, il suo coraggio, la sua voce. Ribelle, fino all’ultimo respiro.

