Boris Johnson a caccia di oro nero nel Golfo, ma Riyadh guarda a Pechino; Israele, intanto, è alle prese con l’arrivo dei jet degli oligarchi (russi) colpiti dalle sanzioni
Johnson negli Eau e in Arabia saudita, per qualche barile in più
Il 16 marzo, il Primo ministro britannico Boris Johnson ha avviato il suo tour diplomatico negli Emirati arabi uniti e in Arabia saudita, in cerca di alternative alla Russia per l’approvvigionamento energetico e per frenare l’aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio. In mattinata, ad Abu Dhabi, si è tenuto l’incontro con il principe ereditario Mohammed bin Zayed Al Nahyan, durante il quale Johnson ha sottolineato la necessità di stabilizzare i mercati globali del settore energetico. Più controvarso, il viaggio del Primo ministro britannico in Arabia saudita, che ha suscitato polemiche a causa delle ripetute accuse di violazione dei diritti umani che pendono sul capo di Riyadh e del suo principe ereditario, Mohammed bin Salman. L’ultima riguarda l’esecuzione, lo scorso 13 marzo, di 81 prigionieri (la più massiccia della storia del regno), che ha portato a 92 il numero di condanne a morte eseguite dall’inizio del 2022. Aumenta dunque la pressione internazionale su Emirati arabi uniti (Eau) e Arabia saudita affinché, grazie alla loro capacità inutilizzata significativa, aumentino la produzione di petrolio, riducendo il peso di Mosca sul mercato globale, per evitare che le sanzioni euroatlantiche si ripercuotano sulle economie dei paesi che le impongono. Dunque, per liberarsi dalla sua dipendenza, “il mondo deve svezzarsi dagli idrocarburi russi”, ha dichiarato Johnson, e in questo, Riyadh e Abu Dhabi sono due “partner internazionali fondamentali”. Nondimeno, finora, entrambe hanno mantenuto un profilo basso, e in particolare gli Eau hanno rifiutato di aumentare la produzione unilateralmente e senza previ colloqui con gli altri membri dell’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec), che nel 2016 aveva stretto con la Russia un’alleanza nota come Opec+.
Riyadh guarda all’Impero del centro
Durante il suo viaggio in Arabia saudita, oltre alle questioni energetiche, Johnson ha cercato la conferma da parte del gruppo saudita Alfanar di un investimento di 1,3 miliardi di dollari a Teesside, per la produzione di carburante a partire dai rifiuti. L’inizio dei lavori è previsto per il 2023. Intanto, Riyadh accelera le trattative con Pechino, in corso da sei anni, per esportare petrolio incassando yuan anziché dollari. Una mossa dovuta, secondo gli analisti, a un calo di fiducia negli Stati uniti a causa, principalmente, del loro ritiro disastroso dall’Afghanistan e della loro posizione sulla guerra in Yemen e sul programma nucleare iraniano. Di conseguenza, l’Arabia saudita (come hanno fatto, del resto gli Emirati arabi uniti) ha “diversificato” il proprio sistema di alleanze, aprendo soprattutto agli scambi commerciali con Pechino, anche in settori strategici. Così, la compagnia petrolifera saudita Aramco ha siglato diversi accordi con imprese cinesi, l’ultimo dei quali il 13 marzo, finalizzato allo sviluppo di una raffineria e di un complesso petrolchimico nella Cina nord-orientale, con le compagnie cinesi North Huajin Chemical Industries Group Corporation e Panjin Xincheng Industrial Group. Se dunque per l’Impero del centro, l’Arabia saudita è un partner chiave in Medio oriente, per l’Aramco la Cina è fondamentale come trampolino per espandersi in Asia.
Israele: che fare degli oligarchi con doppia cittadinanza?
Mentre Europa e Stati Uniti impongono sanzioni agli oligarchi vicini al presidente russo Vladimir Putin, Tel Aviv, che finora si è mantenuta neutrale rifiutando di applicarle, ha istituito una commissione governativa per monitorare eventuali tentativi da parte di decine di questi ricchi uomini d’affari di trovare rifugio in Israele. In molti, infatti, in virtù delle loro origini ebraiche, negli ultimi anni hanno preso la cittadinanza israeliana e ora potrebbero riparare in Israele per evitare di essere colpiti dalle sanzioni. Alcuni di loro, secondo l’emittente araba al-Jazeera, hanno investito in Israele nel fiorente settore tecnologico, o hanno devoluto fondi a organizzazioni votate alla “causa israeliana”. Questa situazione ha destato preoccupazioni a Washington, anche perché secondo i media israeliani, negli ultimi giorni, i jet privati di diversi oligarchi russi sono entrati e usciti dallo spazio aereo di Tel Aviv, anche se non è stato accertato chi vi fosse a bordo. Ad esempio, negli ultimi giorni, il jet Gulfstream G650ER, appartenente a Roman Abramovich, proprietario della squadra di calcio inglese Chelsea, è volato da Mosca a Tel Aviv, quindi a Istanbul e infine di nuovo a Mosca.