Oggi nel mio spazio arriva un autore che, nel suo cammino letterario, ha sempre riportato nei suoi testi argomenti di grande rilievo collettivo, umanitario, tematiche rilevanti sulla società odierna e passata
Uno sguardo il suo incentrato sul bisogno di cambiamento. La necessità di non dimenticare e trovare strade nuove per crescere e migliorarci sia come esseri umani che come società.
Muove i suoi primi passi in campo letterario esordendo con un saggio che tratta una tema discusso, ma mai abbastanza, “Il genocidio nel novecento”. Alcuni anni dopo ritorna in libreria con un altro Saggio che argomenta tematiche sempre di grande interesse sociale: la politica italiana, con uno sguardo attento sul mondo dei giovani e alle loro esigenze; in cui dichiara: “Non è un Paese per i giovani!”.
Oggi a distanza di una decina d’anni lo ritroviamo con il suo primo romanzo anch’esso impegnato, che tocca temi delicati: la perdita di un figlio… Come affrontarla e conviverci.
Innanzitutto la ringrazio di essere qui e le chiedo: Scienze Politiche, perché ha scelto questo indirizzo di studi?
Dopo le scuole superiori, dove avevo conseguito con una buona valutazione il diploma tecnico, avevo la volontà di proseguire gli studi, ma all’epoca non c’erano indirizzi di studio universitario legati alla mia specializzazione di perito tessile, così ho maturato la volontà di cimentarmi in un percorso di studi a me completamente nuovo, un percorso più umanistico, per soddisfare una mancanza di formazione in quell’ambito, avendo oltretutto la possibilità di scegliere tra vari indirizzi di studi. Alla fine ho optato per un percorso storico-politico, con tesi dal titolo “La politica europea nel Mediterraneo”.
Come è nata in lei l’esigenza di scrivere?
Ho iniziato negli anni in cui frequentavo l’Università, quando grazie ad un amico sono entrato in contatto con esponenti italiani del mondo liberale, liberista e libertario, da lì ho iniziato a scrivere articoli su periodici di nicchia, ma intellettualmente molto stimolanti, trattando soprattutto tematiche di teoria politica, attualità politica e storico-politici.
Nel suo primo Saggio, pubblicato, affronta una tematica importante: “Il Genocidio” Uno dei peggiori crimini morali che un governo possa commettere nei confronti dei suoi cittadini o di coloro che sono soggetti al suo controllo. L’olocausto lo testimonia. L’eccidio di 5-6 milioni di Ebrei è ha dato origine al concetto stesso di Genocidio. Da allora i tempi sono cambiati ma il Genocidio appare continuare indisturbato su questa Terra. Le leggi servono a ben poco visto la disumanità che sopravvive a tutto. Una sua considerazione.
Il termine Genocidio viene spesso utilizzato a sproposito nei media, perché sottende una fattispecie giuridica specifica legata non tanto a ciò che viene perpetrato, che è grave tanto quanto gli eccidi, gli omicidi di massa o i pogrom, ma ciò che lo caratterizza è la “volontà genocidaria”, ossia la volontà di eliminare dalla faccia della terra una determinata popolazione o collettività, addossando ad essa chissà quali gravi colpe, logicamente pretestuose. Sebbene non ci voglia una scienza infusa per determinare ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, perché in coscienza ognuno di noi è in grado di riconoscerlo, tuttavia le leggi servono, devono essere chiare e circoscrivere bene le fattispecie, ma sono uno strumento di legalità e civiltà imprescindibile. Anche se a volte abbiamo l’impressione che le leggi non servano per far fronte a crimini e misfatti, dobbiamo sempre pensare che la perfezione non è di questo mondo, tuttavia dobbiamo essere consapevoli che non si deve buttare via il bambino assieme all’acqua sporca. Fare la cosa giusta non è mai un punto di arrivo definitivo, ma esige un continuo impegno nel perseguirla, migliorarla, difenderla e rilanciarla. E se la disumanità sopravvive, non dimentichiamoci che a maggior ragione lo sono l’umanità e la civiltà, che si possono esplicitare anche attraverso le disposizioni e la forza delle leggi.
C’è un libro, o un fatto in particolare, che l’ha spinta a scrivere questo Saggio?
Ho scritto questo saggio a seguito di due articoli, uno sul Genocidio in Tibet, l’altro su quello armeno, che risultavano troppo lunghi per essere pubblicati. Così, visto che l’argomento mi interessava, mi sono cimentato in un’attività di ricerca delle fonti e stesura del libro che mi ha impegnato per quasi tre anni! L’ho scritto cercando di essere molto scrupoloso ai fatti storici per rendere giustizia a ogni singola persona che ha dovuto soffrire a causa di quelle atrocità. L’ho scritto con passione, scrupolo, senso di responsabilità, perché dietro ai numeri delle vittime, ci sono persone cariche del loro vissuto, e non volevo ci fossero delle mancanze o inesattezze in quanto scrivevo.
Nel suo secondo Saggio affronta un tema delicato e sempre attuale nel nostro Paese: “Non è un Paese per giovani. Riflessioni e proposte per la politica italiana, Montedit Editore. Lo ha scritto nel 2013 a distanza di più di 11 anni crede ancora che non sia un paese per i giovani o qualche passo avanti è stato fatto?
L’Italia è un Paese bello e complicato, eterogeneo sotto tutti i punti di vista, dalla scuola al lavoro, dall’ambiente alla mobilità, dall’assistenza sanitaria al sociale. Ma rimane il fatto che avviare e anche mantenere un’attività tra pressione fiscale e obblighi normativi risulta a tratti quasi proibitivo, che un giovane che si affaccia nel mondo del lavoro viene percepito alla stregua di uno schiavetto da sfruttare, magari in assenza di un vero contratto di lavoro, o con una retribuzione ridotta all’osso a fronte di orari “elastici”, fatti di straordinari non riconosciuti. Si aggiunga una Pubblica Amministrazione più capace di caricare d’incombenze e obblighi che di dare servizi, ed ecco il perché moltissimi giovani italiani ogni anno emigrano. Altrimenti come spiegarci il fatto che da molti anni a questa parte circa centomila italiani, per lo più giovani diplomati e laureati, emigrano verso altri Paesi dell’Europa in cerca di un lavoro che possa esprimere le loro capacità e le loro competenze, senza impantanarsi nello sfruttamento mascherato da stage, collaborazioni, contratti a tempo rinnovabili? Un Paese che perde la propria “meglio gioventù” è un Paese che non ha futuro, perché il futuro lo fanno i giovani, ventenni e trentenni, i quali, con la loro ambizione, i loro progetti, il loro sguardo rivolto al futuro, spingono al fare, spingono al cambiamento, danno vitalità alla società.
Winston Churchill a tal proposito diceva. “Il politico diventa uomo di stato quando inizia a pensare alle prossime generazioni invece che alle prossime elezioni.” Questa consapevolezza, a oggi, il nostro Paese l’ha ottenuta?
Assolutamente no, in Italia si fa politica solo in virtù delle elezioni, i partiti politici e i loro esponenti vivono e fanno politica concentrandosi solo sulla scadenza elettorale più prossima, per rafforzare la propria leadership o per indebolire quella altrui. Dire che non c’è lungimiranza politica è eufemistico, siamo alla più totale e pesante miopia! Ma in questo aspetto l’Italia non è sola, un po’ in tutto il mondo Occidentale la tendenza è questa, e la continua contrazione degli elettori alle varie scadenze elettorali ne sono la cartina di tornasole. La verità è che il nostro sistema democratico è “indiretto”, ossia intermediato da altri soggetti, e se questo è oggettivamente corretto, perché una moltitudine non può governarsi, ciò che porta ad una democrazia indiretta oggi è oggettivamente troppo: l’intermediazione dei partiti politici assume l’aspetto di una casta chiusa, e la legge elettorale, scelta e votata dai partiti politici, fa da scudo a questa casta.
Le democrazie Occidentali sono sicuramente malate, gli elettori si sentono sempre più scollati da chi li dovrebbe rappresentare e come diretta conseguenza di questo disamore, o autentico disgusto, c’è la delegittimazione e il rifiuto del diritto di voto. Non è sempre stato così, nel Secondo Dopoguerra i politici sulla scena nazionale e internazionale erano di ben altro spessore umano, morale e politico, e avevano una visione dell’individuo, della società e del mondo. Ora è tutto legato ad algoritmi, tecnologia e dati statistico-economici, dove la visione sull’uomo nella società non è più controllata dalla politica, ma da chi tesse le fila finanziarie, produttive e tecnologiche. L’individuo in quanto tale ha perso importanza, l’assume solo quanto è più appetibile il suo ruolo di consumatore di beni o servizi.
Ha mai pensato di entrare in politica?
Nel mio piccolo l’ho fatta per vent’anni, ho incontrato e conosciuto anche politici di caratura nazionale, ma proprio quel libro ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità o ambizione. Ne ero consapevole, ma non ho potuto farne a meno, lo sdegno e la rabbia erano troppi, non riuscivo più a starmene zitto, così ho messo tutto nero su bianco in un libro, che va inquadrato, per temi e toni trattati, al periodo del 2010/2011, un periodo di fortissima contestazione ai politici e alla classe politica tutta. Comunque un distinguo ci tengo a sottolinearlo, una cosa è fare l’amministratore del proprio comune, dove magari si vive assieme alla propria famiglia, e ci si trova ad affrontare problemi concreti ai quali dare risposte veloci ed efficienti per il bene dei propri cittadini. Un’altra è fare il politico, magari a Roma, dove per poter essere eletto non serve neppure incontrare la gente perché basta essere candidato nella circoscrizione elettorale dove il proprio partito prende molti voti ed essere messo nei primi posti della lista elettorale, per farcela. Il cittadino elettore deve solo mettere una “X”, poi per il politico eletto ci sono cinque anni nei quali non dovrà rendere conto a nessuno del proprio operato parlamentare, se non a chi sta al vertice del partito. Oggi come oggi c’è più distanza tra un qualsiasi parlamentare di Roma con i propri cittadini, rispetto a quanta ce ne fosse tra un Imperatore e i suoi sudditi, perché quest’ultimo, oltre a essere più presente con il suo popolo, ne sentiva la responsabilità, mentre i nostri parlamentari non sentono nessuna responsabilità verso i cittadini gravare sulle loro spalle.
Se potesse viaggiare nel tempo e conoscere un personaggio del passato, chi sarebbe e soprattutto cosa gli chiederebbe?
Ce ne sarebbero tantissima ma, dovendone scegliere uno solo, direi il dottor Albert Sabin, medico e virologo che sviluppò il vaccino contro la poliomielite e non lo brevettò, quale regalo ai bambini di tutto il mondo. Non gli chiederei nulla di particolare, l’ascolterei parlare della sua vita interessante e avventurosa, nonché dei suoi esperimenti medico-scientifici, per poi dirgli “grazie, a nome di tutti i bambini del mondo”.
Nel 2022 pubblica il suo primo romanzo: “Per sempre” edito da Leone Editore, anche qui affronta una tematica importante: sopravvivere alla morte del proprio figlio. Come è nata questa idea?
Per prima cosa ci tengo a informare che, fortunatamente, non c’è nulla di autobiografico. Il libro nasce per germinazione spontanea dopo che, anni fa, si era ancora pre-Covid, il mio primo figlio fu ricoverato in ospedale per una polmonite bilaterale e io stetti in ospedale con lui nei suoi cinque giorni di degenza; in quei giorni lì ho avuto tempo e modo di riflettere sul tema della perdita…e non c’è perdita peggiore per un genitore che quella del proprio figlio.
Come si sopravvive alla morte di un figlio?
Non ho questa risposta, non è facile accettare e dare un senso a qualcosa che è insensato e contro natura, ossia che chi è più giovane di te possa morire prima; a maggior ragione se, come nel romanzo, parliamo di un bambino.
L’accettazione di un lutto non è cosa facile per nessuno, dove si può trovare la forza per affrontarla e proseguire il proprio cammino?
Credo che chi ci riesce si aggrappi a ciò che ha di più solido, le persone che gli sono accanto, la fede, il senso della vita. Ma rimane il fatto che per un genitore la perdita di un figlio è inconcepibile e inaccettabile.
Nel suo percorso umano e sociale la parte spirituale conta?
Purtroppo non sono certo un “cristiano da esportazione”, ho un senso del sacro non granitico ma ondivago, continuamente oscillante tra credere e non credere, tra fede e negazione dell’esistenza dell’Aldilà. Tuttavia sono consapevole che chi ha davvero fede, vive meglio la propria esistenza terrena, assapora la vita in ogni suo istante, sa dare un senso a ciò che di bello e meno bello capita nel proprio cammino di vita. Per questo mi impegno affinché i miei figli abbiano il senso del sacro, perché possano assaporare a pieno la vita.
C’è un’opera a cui si sente più legato e se sì, perché?
Segnalo quattro libri che hanno in qualche modo segnato la mia vita.
Il primo è “Il gabbiano Jonathan Livingston”, che ho letto quando ero alle scuole medie, un libro che invita a lasciarsi guidare dalle proprie passioni per superare ostacoli e pregiudizi, e perseguire quell’obiettivo che tanto si anela.
Il secondo è “Il sergente nella neve”, la cui vicenda vissuta in prima persona dall’autore Mario Rigoni Stern, descrive la drammatica campagna di Russia dei nostri soldati nel corso della Seconda Guerra Mondiale ma anche l’umanità e la voglia di tornare al proprio focolare; questo libro mi ha fatto irrimediabilmente innamorare delle biografie a tema storico.
Il terzo è “Disobbedienza civile” di H.D. Thoreau, è stato fondamentale per la mia presa di coscienza di impegnarmi ad essere cittadino e non suddito, nel saper bilanciare diritti e doveri, siano essi individuali che rispetto alla propria collettività di riferimento, nell’avere anche il coraggio di sapere prendere decisioni contro la legge se questa confligge con la mia coscienza.
L’ultimo è “Nelle terre selvagge”, che descrive gli ultimi tre anni di vita del giovane Christopher McCandless, poi morto in Alaska; è il libro che più mi invita al sogno, alla fuga dalla quotidianità e dalla civiltà, alla voglia di solitudine e riflessione, per ritrovare sé stessi.
Progetti futuri?
La voglia è quella di proseguire a scrivere raccontando storie di vita, storie che emozionino, perché per poterci definire “esseri umani” non contano la tecnologia, il denaro, le proprietà, ma contano le emozioni, i sentimenti, il vissuto; e credo che non ci sia nulla di più bello che provare i saliscendi emozionali del vivere attraverso la lettura di un libro.
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