Con “Lost Tapes vol. 21: Pino Minafra – The Beginnings ‘70 & ‘80”, il pianista e compositore pugliese Livio Minafra offre al pubblico uno sguardo privilegiato sulle radici musicali del padre, Pino Minafra, tra i più noti trombettisti jazz d’avanguardia italiani.
Con una straordinaria celebrazione del talento e dell’eredità familiare nel jazz italiano, Minafra junior dedica, così, un nuovo capitolo del progetto “Lost Tapes” al padre Pino con un cd uscito a partire dal 20 novembre su tutte le piattaforme digitali.
È questa una pubblicazione che ripercorre il decennio che ha plasmato la visione artistica di Pino Minafra, dagli esordi nella musica corale e bandistica pugliese fino ai primi passi nel jazz internazionale. Attraverso registrazioni rare e inedite, recuperate con dedizione e fatica da Livio, emerge una visione del jazz che affonda le sue radici nel contesto culturale europeo, slegata dalle canoniche influenze d’oltreoceano e perfettamente integrata nella storia musicale della Puglia.
Il progetto Lost Tapes è nato da un’idea di Livio Minafra nel 2017. Ogni volume della serie è una scoperta, e questo omaggio a Pino Minafra riavvolge il nastro alla ricerca dei primi passi di un artista che ha contribuito a dare forma al jazz europeo. Di esso ce ne parla nel dettaglio in questa intervista.
Come nasce l’ispirazione per il progetto Lost Tapes?
Franco Chiarulli, un gommista. Eravamo a metà degli anni 2000 a Ruvo di Puglia ed io ero lì per la revisione della macchina. Si rivolge a me in dialetto locale:
– Vìnə dò, Mənà, vìnə dò. Vìnə a səndèjə. (Minafra, vieni qui a sentire!) Mi avvicino. Lui era seduto in una vecchia Fiat Uno e stava maneggiando il vecchio stereo a cassetta.
– Vieni, ascolta!
Parte la Musica.
– U gìezzə. E mò secondo tàikə, ci è ka stè a sənò? (Il Jazz! E ora, secondo te chi sta suonando?)
Preso alla sprovvista ma identificato in linea di massima lo stile cominciai a fare dei nomi: Duke Ellington? Fletcher Henderson? Count Basie? Ma più ne dicevo e più lui rideva fino a che, come una mitraglietta disse:
– Kìsse sò Mimì Laganàrə cu Zənghənnìddə au kondràltə, Pipùccə au tenòr e Menghìne Saullə a la trùambə. (Questi sono Mimì Laganara con Zənghənnìddə (Enzo Lorusso) al sassofono contralto, Pipuccio Pellicani al tenore e Menghino Saulle alla tromba). Orchestra di Bisceglie. Anni ’50.
Rimasi a bocca asciutta. Possibile?
Avevo sentito parlare da mio padre di alcuni musicisti che nel dopoguerra si erano distinti. Erano di Ruvo ed erano nati nella banda. Un certo Santino Tedone aveva persino suonato in Rai. Ma più di tanto non avevo approfondito. Passarono gli anni. Arrivò il 2017, il 16 ottobre 2017. Di notte sognai Pinuccio De Leo, musicista di Ruvo, che mi diceva: – Fai presto. Pinuccio De Leo era stato compagno di mio padre nei primi giri dei night club a fine anni ’60 in Medio Oriente. Lui suonava il sax tenore, mio padre la tromba. Avevano girato Libano e Persia, prima che divenisse Iran. Con Pinuccio ci salutavamo ma non c’eravamo mai più di tanto intrattenuti a parlare, né tantomeno c’era una forte amicizia. A maggior ragione perché era venuto in sogno e cosa aveva voluto dirmi? Mi tornò in mente quell’episodio dal gommista Franco e decisi di fare qualche ricerca su questi musicisti di cui avevo sentito solo parlare da persone dai 70 anni in su. L’idea fu di fare delle interviste ad alcuni di loro viventi, o ai figli, per scoprirne di più. Nacque in quel momento il docufilm Iazz Bann, che vedrà la luce 5 anni dopo. Ma perché Pinuccio mi era venuto in sogno? Perché proprio lui? Lo andai a trovare e scoprì che… proprio il giorno in cui l’avevo sognato, gli avevano diagnosticato un male, che in effetti alcuni mesi dopo se lo portò via. Mi aveva dunque voluto mandare un messaggio con l’inconscio? Ma perché proprio a me? Cominciai allora da Enzo Lorusso. Un musicista prodigioso, dicevano. Franco Lorusso, il fratello, me ne aveva sempre parlato. Così lo andai a trovare. Lessi subito in lui gioia per le ricerche che intendevo intraprendere ma anche dello scetticismo. Il fratello era morto da 51 anni… cosa mai avrei potuto recuperare e ricostruire? Partirono in quel momento una serie di ricerche che nella mia mente erano tutte aghi nei pagliai, quasi impossibili da trovare. Poi non sono riuscito più a fermarmi. Era come se questi spiriti, dapprima infastiditi di essere disturbati innanzi al loro placido oblio, avessero poi riconsiderato le mie intenzioni e mi avessero quindi cominciato a mandare segnali, indizi e tanto altro sulla mia strada, sulla mia vita, che non sarebbe stata più quella di prima. Ed ecco Lost Tapes, i nastri perduti, con Simone De Venuto, Angapp Music, mio vecchio alunno. Storie di uomini, storie di tempi che furono, delle nostre origini, storie di povertà, speranza, vitalità e professionismo… che non andava fatto morire due volte. Perché la morte tocca a tutti, ma l’oblio è una nefandezza dell’uomo e non del Creato.
Tre aggettivi per definire Lost Tapes vol 21?
Antico, moderno, necessario.
Quanto è importante per lei diffondere con il progetto Lost Tapes la cultura del jazz europeo?
In realtà sul Jazz Europeo ho scritto un libro assieme a Ugo Sbisà, di nome “Jazz Europeo, non di solo passaporto”, edito Digressione, perché in Europa abbiamo amato il jazz ma molti hanno saputo/voluto integrarlo alla propria cultura facendone diventare qualcos’altro. Jan Garbarek, Misha Alperin, Gianluigi Trovesi, Enrico Rava… Con Lost Tapes invece vado alla ricerca di nastri perduti di artisti dimenticati, dei quali non c’è nulla. Parlo della comoda, pigra ma efficace ricerca YouTube, Google, Spotify… e così colmo un vuoto culturale. Guardi, tra fare una guerra e dimenticare un artista non c’è differenza. Vi è carenza di esercizio di memoria in entrambi i casi.
Quando e come emerge la sua passione nei confronti della musica?
Da piccolo, figlio di musicisti, cresciuto a pane e musica!
Quanto è importante il costante studio e la sperimentazione per lei?
Importante studiare. Fondamentale creare per trovare sè stessi. E invece assisto ancora a ciò che io definisco il “conformismo didattico”. Siamo ancora lontani da e-ducere, educare veramente, ovvero tirare fuori. Ecco perché per me abc, storia ed invenzione. Fin dalla prima lezione, perché se si pretende di inventare dopo aver imparato… la mente risulta satura e incapace di giocare.
In che misura il talento di suo padre l’ha motivata nel perseguire la sua carriera artistica?
Anche mi madre suona. Clavicembalo. In repertori barocchi e contemporanei. Mio padre invece, jazzista e sperimentatore. In questo senso mia madre mi ha incoraggiato a formarmi (ho oggi 4 lauree musicali) mentre mio padre mi ha insegnato a coltivare un pensiero compositivo. E questo provo a fare in Conservatorio. Ma purtroppo, assomigliare a dei modelli è ancora forte come tentazione, piuttosto che… assomigliarsi.
Nel corso della sua carriera lei ha stretto diverse collaborazioni con grandi musicisti. Una collaborazione che l’ha segnata più di tutti e perché?
Ho suonato con Louis Moholo, con Bobby McFerrin, con Jerry Gonzalez… ma la “collaborazione” che più mi ha segnato mi vedeva infante alle prese col gruppo di mio padre negli anni ’80, con Antonello Salis al pianoforte. Quella forza della natura a 3, 4, 5 anni mi ha colpito per sempre. Una musica sulfurea, roots ma anche delicata, che mi ha segnato per future visioni.
Un consiglio che darebbe ad un giovane musicista che vuole emergere nel panorama jazz italiano…
Fare i conti con la sua geografia sonora e solo dopo unire la modernità più sfrenata. Amo Renaud-Garcia Fons perché si sente il flamenco; amo Gabarek perché sento le steppe; amo Galliano perché si sente la Francia. Tutto il resto è globalità? No, tutto il resto è Findus.