venerdì31 Marzo 2023
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Alle porte dell’Europa un bimbo muore di freddo per una crisi internazionale

I retroscena: le rivolte in Bielorussia      Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko è l’artefice primario di una strategia a...

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I retroscena: le rivolte in Bielorussia    
 Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko è l’artefice primario di una strategia a metà strada fra il bellico e il diplomatico, non ben comprensibile e perciò definita “guerra ibrida”. Presidente da 25 anni, è stato accusato spesso di brogli elettorali, ma dall’agosto del 2020, qualcosa ha iniziato a muoversi in  Bielorussia; un risveglio di aspirazioni democratiche ha investito il popolo, in congiunzione con una crisi economica, dovuta anche alla cattiva gestione della pandemia. Lukashenko non ha infatti adottato misure di contenimento efficaci contro la diffusione del corona virus, dichiarando addirittura, scherzosamente, ad una giornalista di Le Monde, che il clima freddo della Bielorussia è il miglior anti-virus.

Le tappe della crisi

Per ripercorrere le tappe della crisi che hanno portato all’attuale drammatica situazione al confine con la Polonia, occorre tornare indietro al fatidico agosto del 2020, quando le elezioni che hanno visto vincitore Lukashenko per l’ennesima volta, sono state dichiarate illecite da più fronti nel Paese. Il Parlamento Europeo, seguito poi da Regno Unito e Canada ha reagito dichiarando di non riconoscere Lukashenko come legittimo presidente della Bielorussia. Hanno così preso avvio enormi proteste in tutto il Paese, seguite dalla repressione governativa: licenziamenti di giornalisti, violenze in piazza, catture di manifestanti dissidenti e, anche prima delle elezioni, si contavano numerosi altri arresti di possibili rivali politici di Lukashenko. In tutto il Paese è imperversata la ribellione sotto il vessillo dell’antica bandiera della Repubblica Popolare Bielorussa, che ebbe vita fra il 1918 e il 1919. Il simbolo scelto dai manifestanti è stato una forma di opposizione all’attuale bandiera, che era stata adottata proprio da Lukashenko nel 1995 e riprendeva i colori della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa, scelta ad hoc per sottolineare la continuità politica con il passato e il legame forte con la Russia di Putin. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, infatti Lukashenko ha guidato un governo di stampo socialista, senza abbracciare immediatamente le idee liberiste, come era avvenuto in altri Paesi dell’est Europa; ha dunque inizialmente sostenuto l’economia di Stato, finanziando assistenza sanitaria e sussidi alla popolazione, al costo però di un’assoluta mancanza di libertà di espressione. Con la crisi anche economica seguita al Covid 19, la popolazione ha sempre più mal tollerato l’assenza di libertà civili e si è opposta al governo, appoggiando la rivale di  Lukashenko, Svetlana Tikhanoskay, la quale, subito dopo le elezioni del 2020, è dovuta scappare in Lituania per proteggersi, continuando a sostenere i ribelli attraverso i social network. Il 16 agosto 2020 c’è stata la più grande manifestazione della Bielorussia, in cui la polizia ha reagito violentemente contro i dissidenti che creavano barricate, cosicché diversi partiti e organizzazioni, dalla Democrazia Cristiana Bielorussa, al Congresso Bielorusso dei Sindacati Democratici hanno disconosciuto la vittoria di Lukashenko e dichiarato vincitrice Svetlana Tikhanoskay. Tutto, come suddetto, col sostegno dell’Unione Europea. Mentre molti militanti continuavano a scomparire misteriosamente, Lukashenko ha accusato anche la NATO di aver sostenuto l’intensificarsi delle rivolte, le quali hanno di fatto visto protagoniste persone di tutte le estrazioni sociali, studenti, operai, lavoratori della TV di Stato e alcuni di loro hanno anche occupato il più grande teatro di Minsk. Alle proteste si sono aggiunte molte catene umane pacifiche, che hanno rievocato la Baltic Way del 1989, una catena umana di quasi 700 Km ai confini di Estonia, Lettonia e Lituania, a sostegno dell’indipendenza dall’Unione Sovietica.

Il volo dirottato

Nel maggio 2021 un altro episodio inquietante ha annunciato quella che si stava ormai profilando come una gravissima crisi internazionale: un volo da Atene a Vilnius è dirottato verso l’aeroporto di Minsk, con il pretesto di un esplosivo a bordo, ma alla verifica in aeroporto non c’è alcuna bomba. Viene però arrestato un blogger dell’opposizione, Roman Protasevich con la sua compagna: è così che Lukashenko riceve l’accusa internazionale di terrorismo di Stato. In seguito al dirottamento, l’Unione Europea ha aumentato le sanzioni da pagare per la Bielorussia e ne ha vietato il passaggio aereo in Europa, impedendo contestualmente ai voli europei di attraversare il cielo bielorusso, recando così un grave intralcio all’economia del Paese. Amnesty International ha chiesto il rilascio di Roman Protasevich, mentre la Russia, sempre a sostegno di Lukashenko, ha dichiarato che il blogger era ricercato perché appartenente a un movimento neonazista. In realtà, dopo essere stato catturato, Protasevich, come si evince da BBC News, è apparso in televisione, dove in  un’intervista ha lodato il presidente Alexander Lukashenko e ha ammesso il suo errore nel tentare di rovesciarlo. Gli attivisti dei diritti umani e il padre del ragazzo hanno dichiarato che per arrivare a smentire il proprio credo politico, Protasevich è stato certamente torturato.

La miscela esplosiva di crisi bielorussa ed emergenza migratoria

La crisi Bielorussa in collisione con l’emergenza migratoria europea, ha generato l’attuale gravosa violazione dei diritti umani al confine con la Polonia. Molti migranti giunti dalla Nigeria, dalla Siria, dallo Sri Lanka ecc, soffrono e arrivano a morire per il freddo e le ferite. Allo stesso tempo gli altri Paesi baltici, che confinano con la Bielorussia, respingono i migranti mentre accolgono rifugiati politici scappati dal governo di Lukashenko. Il 29 settembre si è mossa la Commissione Europea, dichiarando di sostenere la Polonia e al contempo invitandola a rispettare la convenzione dei diritti umani, che tutela i rifugiati politici ed è condizione sine qua non per essere parte dell’UE. Già nel 2015, con la guerra in Siria, ci fu una crisi simile a quella attuale, era stato infatti costruito un muro, per fermare il passaggio dei migranti nell’Ungheria di Orban; il muro fu definito “grande parcheggio di anime” e “ferita nell’Europa di oggi”, dal giornalista Matteo Tacconi sul sito di ISPI, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Così altre “ferite” o “parcheggi” sembrano in procinto di essere costruiti, perché con l’attuale crisi in Afghanistan, molti Paesi dell’est Europa hanno chiesto all’UE finanziamenti per la costruzione di muri, con una lettera in cui definiscono le “barriere fisiche” come una “misura di protezione per gli interessi dell’intera Europa” (EUobserver). Non meno vergognosa è stata la strategia di Lukashenko. Dopo che l’UE lo aveva sanzionato per impedire la repressione delle proteste, la sua risposta era stata la concessione di un visto turistico ai migranti, per arrivare a Minsk in aereo. Da lì molte persone disperate provenienti da diversi Paesi asiatici e africani sono poi state brutalmente condotte al confine con Polonia, Lituania e Lettonia. L’Europa, che da parte sua non aveva esplicitamente condannato la creazione dei muri, ha continuato a “esternalizzare” le frontiere (come è avvenuto per Libia e Turchia), cioè ha pagato  i governi dei Paesi confinanti, per fermare gli ingressi. In questo modo, i diritti umani e la tutela della vita dei migranti ai vari confini, sono stati relegati all’ultimo posto fra le priorità politiche. Nel caso della Bielorussia però la crisi non è stata messa in atto da una guerra, ma da un’azione diplomatico-bellica precisa che attraverso la concessione di visti e l’accompagnamento alla frontiera, vuole destabilizzare l’assetto geopolitico europeo, portando a una crisi internazionale.

Il comportamento del governo polacco

La Polonia da parte sua non sta rispettando la Convenzione sui rifugiati e ha vietato l’accesso al confine sia ai giornalisti che alle ONG, impedendo di fatto la conoscenza su ciò che avviene in quei gelidi luoghi dell’orrore. Occorrerebbe un immediato sostegno umanitario per le persone in sofferenza, ma la Polonia non lo sta porgendo, così moltissime persone soffrono e alcune sono morte per il freddo e le ferite. Un caso che ha fatto sussultare tutte le coscienze è stato la morte di un bambino siriano di un anno, dopo sei settimane all’addiaccio nella foresta, mentre entrambi i genitori erano feriti agli arti; lui è la tredicesima vittima di questa “no man’s land”. Sarebbe urgente costruire una nuova legge europea sulle migrazioni e anche il portavoce di Unicef, Andrea Iacomini si è rivelato stanco di sentire parole di indignazione da parte dell’Unione Europea e dichiara di attendere fatti concreti e soluzioni (Il Sole 24 Ore). Richiama anche alla memoria la foto che sconvolse tutto il mondo, quella di Aylna, bambino anche lui siriano, di tre anni, riverso sulla riva del mare di Bodrum. Basta morti in mare e ora anche di freddo, l’indignazione, più che mai, non è sufficiente.

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