Messa alle strette dalla sintonia tattica italo-francese, bacchettata dalla Russia per la vendita di droni all’Ucraina, trattata da alleato ostile dagli Stati Uniti, mentre una grave crisi finanziaria rischia di minare la stabilità sociale, la Turchia assiste al primo tentativo di attacco al presidente Recep Tayyip Erdoğan, dopo il “tentato golpe” del 2016; incerta su quanto potrà durare la disponibilità economica qatarina, Ankara medita di riallacciare relazioni diplomatiche con alcuni paesi finora rivali
Pressione interna
Secondo l’agenzia di stampa Anadolu, lo scorso 4 novembre, l’intelligence turca ha rivelato di aver scoperto una carica di esplosivo posta sotto la vettura privata di un agente che avrebbe dovuto scortare Erdoğan nel suo viaggio a Siirt, nella Turchia sud-orientale, dove ha celebrato con un comizio l’inaugurazione del primo impianto di fusione dello zinco, realizzato grazie a un partenariato turco-qatarino. L’ordigno, di fabbricazione artigianale ma controllato a distanza, sarebbe stato trovato presso l’abitazione dell’agente, nella città di Nusaybin (provincia di Mardin, Kurdistan turco). Quindi, sarebbe stato disinnescato dagli artificieri prima che potesse essere attivato. Il partito del presidente, Giustizia e sviluppo (AKP), sottolinea che la notizia non è stata diffusa immediatamente dalla polizia per evitare reazioni di panico tra i partecipanti al comizio. Inoltre, come ha spiegato il vice-presidente dell’AKP, le indagini sono ancora in corso e non è stata ancora individuata alcuna pista. Peraltro, il discorso di Erdoğan ha ruotato intorno alla crisi finanziaria che affligge la Turchia dal 2018, e che da un anno ha raggiunto livelli preoccupanti a causa del suo impatto sociale. Infatti, la svalutazione della lira turca, l’inflazione galoppante (che si aggira attorno al 20%, come era accaduto nel 2018) e i recenti tagli dei tassi di interesse da parte della Banca centrale hanno drasticamente ridotto il potere d’acquisto dei cittadini, in particolare dei ceti medi. Perciò, nel timore di perdere consensi, a Siirt Erdoğan ha tentato di rassicurare i suoi elettori sulle capacità di rilancio dell’economia turca, che resta in crescita (9% nel 2021, inferiore solo all’India tra i paesi del G20). Nondimeno, la riduzione dei tassi di interesse ha portato il presidente a scontrarsi con gli ultimi presidenti della Banca centrale, nonché con gli ultimi tre ministri delle Finanze, come Lufti Elvan, costretto alle dimissioni dopo un anno di mandato, perché accusato di condurre una politica che frenerebbe la crescita economica e le esportazioni (che dovrebbero essere incoraggiate dalla svalutazione della moneta).
Erdoğan cerca riscatto nella geopolitica
L’impianto turco-qatarino inaugurato a Siirte, ha assicurato Erdoğan, ridurrà le importazioni di zinco della Turchia, producendo 90.000 tonnellate nella prima fase, con l’intenzione di aumentarne la capacità produttiva fino a 250.000 tonnellate. Ciò si potrà realizzare aumentando gli investimenti (grazie a Doha, si intende) fino a 500 milioni di dollari, rispetto ai 102 milioni di investimento iniziale. Nel corso del suo comizio, il presidente turco ha poi assicurato che il reddito minimo sarà aumentato per compensare l’inflazione. La Turchia, ha aggiunto, da tre anni subisce aggressioni economiche, ma il taglio dei tassi di interesse consentirà di essere al fianco di chi produce e di chi crea posti di lavoro. Perché i tassi di interesse sono una malattia che rende il ricco ancora più ricco e il povero ancora più povero. Un altro tema caldo, giacché il tasso di disoccupazione nel terzo trimestre del 2021 si attesta attorno al 11,5%. A tal proposito, il presidente onorario della compagnia turca Lineer Metal AS, ha dichiarato che 500 persone lavoreranno nello stabilimento di Siirt e circa 2.500 nelle miniere delle città di Hakkari e Şırnak, mentre, quando si concretizzeranno altri investimenti, il numero di posti di lavoro arriverà a 7.500. Dunque, Erdoğan cerca di porre rimedio al calo dei consensi cui fanno riferimento i sondaggi, sapendo che la base del suo elettorato è costituita soprattutto dalle componenti religiose conservatrici delle classi medie e basse. Per questo stesso motivo, cerca di riguadagnare peso politico legando il discorso identitario all’intraprendenza geopolitica. In primo luogo, nel riferimento agli attacchi economici degli ultimi tre anni, si può verosimilmente scorgere un messaggio rivolto all’amministrazione statunitense di Joe Biden, che, da ultimo, lo ha escluso dal prossimo vertice (virtuale) per la democrazia, segno che, rispetto agli anni ‘90 del secolo scorso, Washington sembra meno disposta ad affidare ad Ankara il ruolo di gendarme plenipotenziario nei Balcani e in Asia centrale. L’origine dell’attuale crisi finanziaria risale infatti al 2018, quando, in risposta alla mancata soddisfazione delle richieste di estradizione del pastore Andrew Craig Brunson, arrestato in Turchia con l’accusa di legami con Fethullah Gülen, gli USA avevano imposto sanzioni e dazi sulle importazioni, provocando una prima svalutazione della lira. Brunson fu rilasciato e rimpatriato nell’ottobre dello stesso anno, ma le relazioni tra Ankara e Washington non tornarono alla normalità, complice un (apparente) avvicinamento tattico turco alla Russia.
Riconciliazione con le monarchie del Golfo
Eppure, di fronte alle pressioni geopolitiche, Erdoğan, che negli ultimi anni ha ostentato le proprie mire espansionistiche e imperiali, fondate da un lato sul sostegno all’islam politico dei Fratelli musulmani (in Egitto, ma anche con Hamas in Palestina), dall’altro sulla creazione di una rete di relazioni tra paesi turcofoni, oggi cerca di alleggerire le pressioni internazionali attraverso tre fondamentali linee tattiche. La prima punta essenzialmente alla riconciliazione con gli altri Stati del Golfo: dopo gli accordi di cooperazione nel settore dell’energia e della tecnologia, firmati ad Ankara, a fine novembre, da Erdoğan e dal principe ereditario e ministro della Difesa di Abu Dhabi Mohamed bin Zayed al-Nahyan, durante il viaggio in Qatar di questi giorni, il presidente turco ha espresso l’intenzione di tessere relazioni con i fratelli del Golfo, senza distinzioni, nel quadro degli interessi comuni e del rispetto reciproco. Toni che ricordano la dottrina della profondità strategica dell’ex primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, favorendo una distensione che dovrebbe almeno ridurre gli attriti che hanno caratterizzato l’ultimo decennio. E permettere ad Ankara di cercare nuovi finanziatori: Gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato l’istituzione di un fondo di 10 miliardi di dollari per sostenere investimenti strategici in Turchia, anche nei settori della sanità e dell’energia. Un accordo di cooperazione è stato siglato, inoltre, tra le banche centrali dei due paesi, una mossa che potrebbe alleviare almeno le conseguenze più disastrose, dal punto di vista sociale, della crisi finanziaria turca. Intese simili, in precedenza, erano state raggiunte dalla Banca centrale turca con le banche centrali di Cina (per 6 miliardi di dollari), Qatar (per 15 miliardi di dollari) e Corea del Sud (per 2 miliardi di dollari). Mosse oculate da parte di Ankara, che pur essendo interessata a intensificare la cooperazione con Doha, sente la necessità di attrarre altri paesi investitori, e di trasformare alcuni dei suoi vecchi rivali in “buoni vicini” geopolitici.
Pressioni sull’Europa, con un occhio rivolto a Pechino
Delle altre due linee tattiche, l’una riguarda i rapporti con l’Europa, in particolare con alcuni paesi, come la Francia, la Grecia e l’Italia. Se Parigi ha individuato nella Turchia un bersaglio non solo geopolitico ma anche politico in senso stretto (si ricordino le accuse del presidente francese Emmanuel Macron agli imam di origine turca che operano nell’Esagono, di istigare il separatismo nei musulmani francesi originari del Maghreb), e se le rivalità con Atene sono funzionali al discorso identitario di Erdoğan, con l’Italia il terreno di confronto è potenzialmente più fertile, nonostante qualche mese fa il presidente del consiglio italiano Mario Draghi aveva definito dittatore il suo omologo turco, che a sua volta gli aveva dato del maleducato. Frizioni che sembravano già superate, alla fine di ottobre, quando i due si sono incontrati a Roma, per discutere dei rapporti tra Turchia e Unione europea, dell’Afghanistan, ma soprattutto della stabilità nel Mediterraneo e della Libia. Di contro, Erdoğan ha preferito disertare l’incontro di Parigi del 12 novembre, tra Francia, Italia, Germania, Libia e Nazioni Unite, cui ha preso parte anche l’Egitto: un contesto, quindi, decisamente più ostile agli interessi strategici di Ankara. Tuttavia, anche le relazioni con Roma potrebbero essere messe a repentaglio dal Trattato del Quirinale, firmato il 26 novembre da Italia e Francia, che prevede una stretta cooperazione non solo economica, ma anche militare (fino alla possibilità di una presenza di soldati francesi in territorio italiano e vice versa). Oltre a ciò, il 30 novembre l’analista militare turco Metin Gurcan è stato arrestato dalla polizia a Istanbul, con l’accusa di spionaggio politico e militare in favore dell’Italia. Un sintomo, con buona probabilità, della contrarietà di Ankara rispetto all’avvicinamento tra Italia e Francia, che potrebbe comportare la fine dell’atteggiamento conciliante di Bruxelles verso la Turchia, che ha impedito uno schieramento netto dell’Unione europea in favore della Grecia nel Mediterraneo orientale.