Stipendi italiani, i più bassi d’Europa

La pandemia ha messo a dura prova le economie mondiali, creato disoccupazione e aggravato le disuguaglianze sociali

In quasi tutti i Paesi d’Europa i salari medi annuali sono aumentati, ma non in Italia

Stipendi d’oro. All’inizio degli anni ’90, l’Italia era il settimo Stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali. Nel 2020 è scesa al tredicesimo posto, sotto a Paesi come Francia, Irlanda, Svezia e Spagna, che negli anni ’90 avevano salari più bassi. Nel nostro Paese, segnala OpenPolis, l’aumento maggiore “in quanto a entità della retribuzione si è registrato negli anni tra il 1995 ed il 2010, in cui si è progressivamente passati da un salario medio annuale di circa 37mila dollari a uno di 42mila. Un aumento comunque molto lontano da quello delle altre nazioni europee, se pensiamo che il salario medio irlandese per esempio è passato negli stessi anni da circa 31mila a quasi 50mila dollari”. Nei Paesi dell’ex blocco sovietico o dell’ex Urss, nello stesso periodo gli stipendi sono perfino raddoppiati, quando non triplicati. Anche il Giappone che è penultimo nella classifica è cresciuto nelle retribuzioni della popolazione con un +4,4%.

I rilievi dell’Ocse

Secondo l’Ocse, in particolare, i nati dopo il 1986 hanno il reddito pro capite più basso della storia italiana. E’, con ogni probabilità, una conseguenza della elevata disoccupazione giovanile. Le imprese estromettono i lavoratori anziani e sfruttano l’abbondanza dell’offerta di lavoro per pagare poco. Ogni trentenne italiano di oggi è cresciuto assieme a una discreta crescita del Pil pro-capite, una volta e mezzo quello che aveva alla nascita, ma non se ne è accorto. E la sua paga è minore di quella del padre. L’Italia è, tra l’altro, l’unico Paese d’Europa in cui non solo i più giovani, ma anche coloro che hanno tra 30 e 49 anni prendono meno della media, 2.067 euro lordi mensili contro 2.102. Altrove a questa età si è quasi al picco della carriera e gli stipendi medi sono ormai decisamente superiori a quelli complessivi. In Germania di 210 euro, nel Regno Unito di 378, in Irlanda di 309. Non serve aver studiato macroeconomia per comprendere che la retribuzione della forza lavoro di un Paese è determinata dalle condizioni prevalenti nel mercato, dalla contrattazione sindacale e dalla legislazione, che può favorire alcune dinamiche del mercato rispetto ad altre. C’è poi il tema delle competenze: è certamente più facile sostituire un lavoratore di fast-food che un ingegnere informatico. Se ne è dovuto accorgere il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta, il quale ha dovuto riconoscere il flop del suo concorso nazionale per tecnici specializzati, che avrebbe dovuto rinforzare la pubblica amministrazione nel mezzogiorno. I nostri salari non sono adeguati per trattenere una forza del lavoro specializzata che per questo tende ad emigrare.

La fuga di cervelli

Si spiegano così l’emigrazione dei cervelli, la disaffezione per il lavoro, il disprezzo verso la cultura e l’istruzione. Da anni si discute di una possibile introduzione del salario minimo che è assente nel nostro Paese. Gli Stati Uniti, il paradiso del libero mercato, sono stati tra i primi a introdurlo ed in Europa li ha seguiti la Germania nel 2012. Da noi esistono già i Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro (CCNL), una specificità tutta italiana, che regola i livelli retributivi del nostro mercato del lavoro. Benché goda del sostegno di molti esponenti politici, la proposta di introduzione del salario minimo negli ultimi anni ha spesso trovato numerose resistenze sia da parte degli imprenditori sia da parte dei sindacati. I primi temono che l’aumento del costo del lavoro metta le loro aziende fuori mercato nei confronti di quelle estere. Secondo uno studio del 2019 citato dal Sole 24 Ore, con un salario minimo di 9 euro lordi l’ora il costo medio del lavoro aumenterebbe del 20 per cento. Eppure l’istituzione di un salario minimo legale, ossia di un limite sotto al quale non si può scendere nella retribuzione dei lavoratori, è un fattore di civiltà che esiste già in 22 Paesi europei su 28. Quelli che non ce l’hanno – Italia, Svezia, Austria, Danimarca, Finlandia e Cipro – demandano la fissazione della paga minima ai contratti di lavoro collettivi. Proprio la storica forza della contrattazione collettiva in Italia spiega il ritardo con cui si arriva a questa discussione, così come le perplessità dei sindacati – i quali vogliono mantenere le redini della contrattazione salariale collettiva per categorie – e di Confindustria. Giulia Cortese

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