La lentezza della giustizia italiana ha condannato la famiglia del giovane Cucchi a 13 anni di processo e di gogna mediatica mentre per i rappresentanti delle istituzioni, riconosciuti colpevoli di aver picchiato brutalmente un innocente e poi ostacolato le cure e ancora depistato le indagini, le condanne vanno dai due anni e mezzo ai dodici.
Finalmente è arrivato il pronunciamento definitivo della Corte di Cassazione in merito all’omicidio di Stefano Cucchi. I due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati riconosciuti colpevoli di omicidio preterintenzionale e condannati a 12 anni di carcere. La corte ha disposto anche un nuovo rinvio a giudizio per Roberto Mandolini e Francesco Tedesco che erano stati condannati in appello rispettivamente a 4 anni e a 2 anni e 6 mesi per false dichiarazioni nell’ambito delle indagini per la morte del giovane romano. Reato per il quale però è prevista la prescrizione a maggio.
Ci sono voluti tredici anni. E sono stati tredici anni di depistaggi, occultamenti, false accuse, insulti e campagne mediatiche denigratorie contro la famiglia del giovane che però non c’è stata a far passare l’immagine di un giovane drogato con problemi psicologici che si sarebbe cacciato in un brutto pasticcio a causa dei suoi supposti vizi. La difesa infatti ha puntato a costruire la versione di un incidente causato dagli eccessi del giovane che dopo il fermo si sarebbe rifiutato di sottoporsi alla procedura di fotosegnalamento. Tuttavia il dato più allarmante che è emerso in questi lunghi anni è senza dubbio il coinvolgimento di altre persone, lungo tutta la catena di comando, che si sono adoperate per coprire i responsabili del pestaggio, arrivando a falsificare atti e verbali e mandando sotto processo anche degli innocenti, come gli agenti penitenziari, poi prosciolti dalle accuse, accusati di avere picchiato Cucchi all’interno della struttura carceraria. La verità che è emersa dai processi parla invece di un ennesimo sopruso commesso dalle forze dell’ordine. Una assurda e sproporzionata dimostrazione di violenza che si è cercato poi di negare, mettendo in luce una difesa corporativa del collega ben oltre i confini della legalità. Una pretesa di impunità per l’esercizio monopolistico della violenza svolto per conto dello Stato. A questo si aggiungano un pregiudizio sociale piuttosto diffuso nelle caserme verso “il tossico”, “la zecca di sinistra” e un culto della forza come valore etico ed estetico dei militari. Lo stesso Procuratore Generale della Cassazione Tomaso Epidendio durante l’udienza ha affermato che il pestaggio attuato dai carabinieri nella caserma Casilina il quindici ottobre del 2009 “è stato una punizione corporale di straordinaria gravità, caratterizzata da una evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi”, aggiungendo che “fu una via crucis notturna quella di Stefano Cucchi, portato da una stazione all’ altra. E tutte le persone che entrarono in contatto con lui dopo il pestaggio sono rimaste impressionate dalle condizioni del Cucchi: si tratta di un gran numero di soggetti tra i quali infermieri, personale delle scorte, detenuti, agenti di guardia. Davvero si può ritenere che questo numero impressionante di soggetti abbia congiurato contro i carabinieri?”.
Pur non dubitando della sincerità delle parole espresse dal Comando Generale dei Carabinieri, che in una nota ha affermato che la sentenza “ci addolora perché i comportamenti accertati contraddicono i valori e i principi ai quali chi veste la nostra uniforme deve sempre e comunque ispirare il proprio agire”, resta un fatto accertato che Stefano Cucchi è morto nelle mani dello Stato. E lo Stato potrebbe ancora fare molto per prevenire questi eccessi di violenza dei suoi fedeli servitori. Se solo la si smettesse di considerarli semplicemente degli eccessi di violenza.