Nel Regno Unito 70 aziende hanno ridotto la settimana lavorativa a 4 giorni anziché 5, un nuovo modo di vivere il lavoro in modo più produttivo e meno pressante.
L’Italia è pronta ad affrontare un calo delle ore di lavoro lasciando invariato lo stipendio?
Recentemente abbiamo assistito a una sperimentazione avviata nel Regno Unito, una sperimentazione in cui circa 70 aziende hanno adottato la settimana breve per i dipendenti: 4 giorni lavorativi invece di 5. Il Regno Unito non è stato il primo a provare questa nuova realtà e che continua a provocare e a portare chiacchiere e dibattiti nel mondo del lavoro.
E l’Italia a che punto è? Per saperlo, l’agenzia Dire ha intervistato l’imprenditore Oscar Farinetti, fondatore di Eataly, il sindacalista Fausto Durante della Cgil, l’avvocato giuslavorista Ciro Cafiero e la docente di Psicologia sociale Elisabetta Camussi.
Parla l’imprenditore Oscar Farinetti
«Io proporrei una cosa aperta: ridurre la quantità di lavoro, aumentando la qualità, ma consentire di fare più ore a chi lo desidera e soprattutto questa flessibilità deve riguardare anche i festivi. Comunque è destino lavorare meno, ma sempre meglio – commenta Oscar Farinetti, imprenditore e fondatore di Eataly sulla sperimentazione della settimana breve nel Regno Unito – nel corso degli anni siamo riusciti fortunatamente a lavorare sempre meno, oggi siamo a 40 ore a settimana su 5 giorni – prosegue Farinetti -, che significa che abbiamo il 42% di tempo libero, il 33% lo passiamo dormendo e il 25% lavorando. È un tema chiaramente più semplice per aziende di produzione che hanno un costo del lavoro molto basso attraverso la meccanizzazione, ma è più complicato per aziende di retail, come per esempio la ristorazione, dove il costo del lavoro pesa moltissimo. Per questo non sarà facile mantenere gli stessi stipendi riducendo un giorno di lavoro alla settimana».
«Oggi è un grandissimo problema trovare persone da assumere – continua Farinetti – non se ne trovano più. Soprattutto per chi, come noi, offre un tipo di lavoro anche nel week end. Sicuramente lo stipendio minimo garantito aiuterebbe di più rispetto al reddito di cittadinanza, che non è una soluzione al problema del lavoro, però è assolutamente importante che una quota di denaro venga prelevata da chi ne ha di più per darla a chi ne ha di meno, lasciando un reddito di sussistenza» conclude l’imprenditore.
L’opinione di Fausto Durante, coordinatore della Consulta industriale della Cgil nazionale
Fausto Durante, coordinatore della Consulta industriale della Cgil nazionale e autore del volume “Lavorare meno, vivere meglio”, è favorevole alla riduzione dell’orario di lavoro..
«Ridurre l’orario di lavoro fa bene non solo ai lavoratori, ma anche alle imprese e all’economia» .
«Ridurre il tempo lavorativo, auspicabilmente a 32 ore e 4 giorni a settimana, sarebbe una delle chiavi per migliorare la situazione del lavoro in generale, per conciliare vita privata e lavoro, per rendere i lavoratori più felici e soddisfatti della loro attività dato che, al momento, non mi pare lo siano. Stiamo infatti assistendo al fenomeno delle grandi dimissioni e, al contempo, molte persone non accettano l’impiego che gli viene offerto perché le condizioni non sono sufficienti. Evidentemente, sempre più lavoratori pensano che le modalità per realizzarsi non passino attraverso le condizioni che il lavoro di oggi propone».
«Questa riduzione farebbe bene anche all’economia italiana – spiega Durante – si tratta, però, di un argomento in netta controtendenza rispetto al mainstreaming in corso sulle condizioni economiche e sociali del Paese, sulla competitività, sulla necessità di lavorare di più e meglio. Questo modello neoliberista del turbocapitalismo che ci è stato inculcato ci ha portato esattamente dove siamo adesso: lavoro precario, salari bassi, orari lunghi e condizioni di lavoro insoddisfacenti. A tutto questo si è aggiunto il Covid. La riduzione delle ore e dei giorni settimanali di lavoro cerca di ribaltare proprio questo paradigma, dando priorità al benessere. Ma è un modello difficile da proporre e affermare».
Il rischio è che la riduzione dei giorni lavorativi e la conseguente diminuzione delle ore lavorate in settimana, possa provocare danni all’economia del paese a causa di un calo della produttività, ma il sindacalista Durante è di tutt’altro avviso.
«In tutti i Paesi in cui, negli ultimi cinque anni, sono state realizzate esperienze del genere, tranne un caso in Asia, le conseguenze sono state un aumento della produttività e della competitività delle imprese; un immediato miglioramento del tasso di occupazione, perché se riduco l’orario libero porzioni di lavoro da poter assegnare a nuovi lavoratori; un beneficio per il tasso di occupazione di giovani e donne. Per le donne infatti, la riduzione dell’orario ha comportato la possibilità di non dover ricorrere al part time obbligatorio e quindi di intraprendere percorsi di carriera più soddisfacenti. In Francia, dove l’orario è stato ridotto a 35 ore, in cinque anni si sono creati 400mila nuovi posti di lavoro, il 65% dei quali è stato occupato da giovani e donne» conclude Durante, esprimendosi favorevolmente a questo cambio nel modo di lavorare. Un nuovo modo per perdere tempo o, piuttosto, un modo per conciliare una vita sempre più frenetica a lavori, spesso, altrettanto stressanti? Possiamo tornare un attimo indietro nel tempo, a quando (non troppo tempo fa), lavoravamo 10, 12 ore al giorno 7 giorni a settimana, la produttività è calata o aumentata da quanto lavoriamo 40 ore alla settimana? Siamo più produttivi di una volta lavorando meno, perché non potrebbe accadere ancora? Sappiamo bene che l’attenzione non può rimanere costante per 8 ore al giorno per 5 giorni a settimana, quando tempo perdiamo a distrarci, a decocentrarci? E se sfruttassimo questo tempo perso per fare ciò che vogliamo noi e non per stare in ufficio, in fabbrica o comunque sul posto di lavoro a non fare nulla?
In base al discorso di Durante, sembra possibile e plausibile.
La testimonianza di Cafiero: esperto di diritto
«Diciamo che la nostra produttività oraria del lavoro non è alta come quella dei Paesi anglosassoni o del nord Europa, che possono consentirsi anche una settimana lavorativa più corta ed eventualmente di ridurre il carico di lavoro di ciascun lavoratore. Questo è un dato da tener presente ed è un contro. Da un punto di vista dei pro, invece, sicuramente i tempi iniziano ad essere maturi per valutare, più che una settimana corta, una maggiore autonomia a favore dei lavoratori nella distribuzione del proprio orario – dice l’avvocato giuslavorista Ciro Cafiero, docente di Diritto del lavoro alla “Luiss School of Law” di Roma, che prosegue poi dicendo che – ad insegnarcelo molto chiaramente è stato lo smart working, abbiamo visto infatti che i lavoratori sono pronti a gestire con più autonomia i propri oneri, quindi con un passaggio dall’obbligazione di mezzi all’obbligazione di risultati. Per cui dovremmo valutare la proposta di ridurre l’orario alla luce di questo quadro: da un lato una bassa produttività oraria per le nostre imprese, che deriva essenzialmente da un gap tecnologico in molti contesti, dall’altro una maggiore autonomia che grazie allo smart working i lavoratori hanno raggiunto. L’aumento della produttività di ogni singolo lavoratore nel benessere di ogni singolo lavoratore e l’aumento dei profitti delle imprese. Lo smart working suggella l’alleanza e determina il tramonto dell’idea del conflitto, che è un po’ quella che ha permeato la Seconda rivoluzione industriale del Fordismo, e prende il sopravvento questa idea forte di sinergia e alleanza tra impresa e lavoro a tutti i livelli. È una questione valoriale prima che di organizzazione».
L’avvocato ci tiene a far presente che alcune aziende importanti hanno cominciato a fare questa sperimentazione da qualche tempo, ma non è detto che questo sistema sia funzionale per l’Italia, almeno secondo il giurista.
«Non è detto che vadano bene per il nostro Paese. Alcune imprese hanno già iniziato a farle, soprattutto le multinazionali,perché hanno un’esperienza che arriva dall’estero e che stanno cercando di replicare anche in Italia, ma sono molto guardinghe. Personalmente sono molto “laico” nella valutazione, non sono né nettamente ‘contro’ né nettamente ‘pro’. Però se posso dire la mia, dico che oggi non è più tempo di parlare di settimana lavorativa e di orario di lavoro distribuito su alcuni giorni, ma è tempo di discutere di autonomia dei lavoratori nella scelta dei tempi, degli spazi e dell’organizzazione del lavoro».
Secondo Cafiero, la miglior forma di creazione di posti di lavoro è l’investimento sulla creatività delle persone.
«Lasciare alla persona la possibilità di organizzarsi significa farle sviluppare il suo senso di autoimprenditorialità in un’ottica personalistica. È un’idea antropologica del lavoro, metterei al centro questo».
È ovviamente impensabile questa soluzione per certe categorie di lavori.
«Per chi lavora in fabbrica, per esempio, la settimana corta diventerebbe un problema, perché la produzione, soprattutto quella di alcuni settori, come per i generi alimentari, richiede dei flussi continui e non contempla interruzioni. Rispetto a loro è possibile individuare dei margini di autonomia più ampi; già da molto tempo in Francia si parla di “teal’”, cioè di un’ organizzazione molto più orizzontale e meno verticale, in cui la gerarchia è molto meno pressante e dove gli stessi lavoratori in fabbrica organizzano, con una sorta di comitato autonomo interno, le proprie giornate di lavoro».
Questa divisione tra settimana standard e settimana breve porta all’attenzione la questione salari e stipendi, che in Gran Bretagna rimangono invariati.
«È questo il punto da capire – dice Cafiero – in Gran Bretagna non c’è la contrattazione collettiva che determina i livelli retributivi, così come in Germania ci sono leggi che regolano il salario, per cui da questo punto di vista si tratta di sperimentazioni “neutre”. In Italia non lo sappiamo, perché i contratti collettivi sono incaricati di individuare i livelli, però mi chiedo: cosa accade se solo alcuni optano per quattro giorni lavorativi e tutti gli altri restano a cinque? Percepiranno la stessa retribuzione? Non è giuridicamente possibile, perché l’articolo 36 della Costituzione parla di retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro, quindi chi lavora di più percepisce una maggiore retribuzione. Sono domande aperte e non abbiamo una soluzione, però quantomeno possiamo interrogarci» conclude il giuslavorista.
La psicologa sociale concorda con la riduzione dei giorni lavorativi
L’ultima esperta intervistata sulla questione della settimana breve è la professoressa associata di Psicologia sociale presso l’Università di Milano Bicocca e presidente della Fondazione della professione psicologica Adriano Ossicini del Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi Elisabetta Camussi,
«L’impostazione del lavoro cinque giorni a settimana è molto arretrata e, inoltre, ha dimostrato di non essere neanche garanzia di percorsi di carriera verso l’alto (sia come mansioni che in termini di stipendio). Tuttavia, al tema della riduzione dell’orario e della settimana lavorativi il nostro Paese non è minimamente abituato».
«Ci sono invece Paesi, come quelli scandinavi – ribatte la professoressa – in cui non è più neanche una sperimentazione, ma una realtà acclarata che ha comportato indubbiamente benefici. Diminuire di un giorno la settimana lavorativa, riducendo anche le ore settimanali complessive, spinge infatti molto l’idea di un equilibrio tra la vita privata e le sue esigenze e l’esperienza professionale. In questo senso però, le uniche sperimentazioni di successo sono quelle che hanno ridotto le ore lavorative e non compresso le stesse ore in meno giorni. Una riduzione che, è bene ricordarlo, non ha prodotto un peggioramento della produttività e delle performance lavorativa ma, al contrario, le ha migliorate perché le persone, potendo godere di una esperienza di vita più piena, hanno risposto con una maggior capacità di finalizzarsi nei propri obiettivi (che è poi la vera natura dello smart-working) e nella propria produttività».
Secondo la professoressa e psicologa sociale, non è solo una questione di soldi e tempo libero, bisogna sapere leggere due importanti fenomeni che si stanno verificando: il primo è un aumento di richieste di aiuto psicologico, il secondo è la necessità di rivedere il lavoro come fin’ora lo conosciamo in seguito al fenomeno delle “grandi dimissioni”, in cui possiamo notare un aumento spaventoso di persone tra i 20 e i 35 anni che abbandonano il lavoro per cercarne uno migliore e che possa garantire migliori condizioni di vita e stipendi adeguati.
«Il forte aumento di richieste di aiuto psicologico arrivate proprio all’interno dei luoghi di lavoro, non contro i contesti lavorativi, ma a partire da questi ultimi. In alcuni casi, i più illuminati, sono state organizzati sportelli di sostegno psicologico interni alle aziende; in altri casi sono stati offerti sistemi di re-invio a servizi pubblici o privati. Questo ci dà un’indicazione molto chiara del fatto che dentro i contesti lavorativi emergono una fatica, una complessità, una difficoltà e una sofferenza di cui le persone sono portatrici e che non può essere ricondotta semplicemente a quello che succede nella loro vita privata, ma ha a che fare con una serie di cambiamenti. Uno di questi è proprio un cambiamento di visione della propria esperienza professionale. La pandemia non ha infatti costituito solo un trauma, nella vita di tutti noi, ma anche una cesura con ciò che era prima. Ora ciò che risulta complesso è riorientarsi e ritrovare senso, anche all’interno del contesto lavorativo».
Per quanto riguarda il fenomeno delle grandi dimissioni, la professoressa ne parla come qualcosa di importante e da non sottovalutare.
«Un movimento proveniente dagli Stati Uniti e che sta prendendo piede anche da noi. Solo in Lombardia, nel 2021 su 4,5 milioni di occupati si è dimesso volontariamente il 10%. Un dato impressionante, se consideriamo che si sta verificando in un periodo ad alto rischio di recessione economica. Protagonisti di questo fenomeno sono, principalmente, i giovani under 35 e le donne, lavoratori con media-alta qualificazione. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che, alla concezione del lavoro di stampo novecentesco, rispondono con una richiesta che non è banalmente di carriera e di denaro, ma di qualità della vita, benefit complessivi e riconoscimento delle competenze. La settimana corta sarebbe una valida risposta a questa richiesta di nuovi equilibri, emersa fortemente durante la pandemia, che ha riportato al centro le relazioni».
Prosegue poi la professoressa Camussi.
«Nella fetta di genitori che hanno rassegnato o stanno rassegnando le proprie dimissioni ce ne sono molti con figli tra 0 e 3 anni e tra questi la maggior parte (80%) sono donne. Questo deve farci riflettere su quanto e se, per questo gruppo specifico di lavoratori, lavoratrici soprattutto, le dimissioni siano volontarie. Guardando a questo aspetto, la riduzione della settimana lavorativa e il liberare sistematicamente un giorno a settimana non renderebbe solo per le donne più semplice la conciliazione del lavoro con la vita privata e con i carichi di cura, ma permetterebbe di estendere e condividere maggiormente questi carichi con il partner. Soprattutto se si evitasse di cadere nell’ottusità di far coincidere lo stesso giorno libero per tutti. Come effetto indiretto – inoltre – questo favorirebbe una maggior partecipazione delle donne al mondo del lavoro».
«La pandemia ci ha permesso di capire che abbiamo dei diritti, dei bisogni e dei desideri – conclude Camussi – che non si riconoscono in un’impostazione del lavoro novecentesca».
La settimana da 40 ore è anacronistica, è palese. Poteva avere un senso quando l’uomo andava a lavorare e la donna era costretta a prendersi cura di casa e figli, ma il contesto era molto diverso: con uno stipendio solo mantenevi moglie, casa, macchina e figli, una volta tornato a casa avevi i bambini lavati e in pigiama che ti aspettavano per cenare e andare a letto, la casa era pulita e tu e tua moglie avevate lavorato entrambi in modo proficuo.
Ora non è più così, uno stipendio non è sufficiente, in una coppia lavorano entrambi, i single a maggior ragione devono mantenere loro stessi, eventuali figli e gestire cas e vita loro e di bambini coinvolti (come minimo), le cose da fare sono centinaia, che sia andare in posta a pagare le bollette o fare la spesa o portare tua figlia a basket, il tempo non è sufficiente e la vita privata ne risente terribilmente.
Siamo nati per lavorare per vivere, non vivere per lavorare ed è giusto che ci riprendiamo questa consapevolezza e i nostri ritmi.