Siamo immersi in un mondo lavorativo che ci spinge ad essere continuamente performanti, veloci e connessi.
Non ci accorgiamo che tutto ciò va a discapito di fattori che ci riguardano come esseri umani, come l’empatia. Di fatti nel lavoro non dovremmo mai dimenticarci della propria umanità perché siamo della mille sfaccettature e sfumature che meritano attenzione ed espressione e non robot asettici.
Una componente che nei contesti lavorativi non andrebbe mai sottovalutata è quella della cura nei confronti di sé stessi e degli altri. Per “cura” si intende “il volgere lo sguardo, posarlo” su ciò che l’altro è in maniera autentica.
Spesso osserviamo ciò che ci circonda comprese le persone senza guadarle realmente perché distratti da altro o continuamente in corsa contro il tempo per continuare ad essere veloci ed efficienti nel lavoro e nella quotidianità.
Ce lo dimostra Riccarda Zezza, manager e fondatrice di Lifeed, azienda di education technology nel suo libro “Cura” edito da Franco Angeli. Da esso emerge quanto sia importante “la cura” nel mondo lavorativo odierno per creare ambienti di lavoro di qualità in cui l’intelligenza emotiva venga valorizzata e in cui dare la giusta importanza alle “”competenze trasversali ritenendole un “punto di forza” e non di debolezza.
Cura è un libro che si legge con molto interesse perché ci riguarda in prima persona come esseri umani e ci fornisce una narrazione inedita su quanto la cura faccia parte del nostro Dna e di come è in grado di migliorarci e di creare connessione preziose con gli altri per generare contesti lavorativi a misura di persona in cui ognuno possa sentirsi valorizzato per la sua unicità e autenticità.
In questa intervista Riccarda Zezza ci fa chiarezza sull’argomento nel mondo lavorativo odierno e ci fornisce tanti spunti di riflessione su questa tematica.
Com’è nata l’ispirazione per scrivere Cura?
Mi sono chiesta perché parlare di cura proprio adesso: la rivoluzione industriale l’ha sacrificata all’efficienza, la rivoluzione digitale l’ha barattata con il tempo. La grande interruzione della pandemia ha reso visibile il vuoto. Ma quando sono diventata madre ho scoperto quanto siamo “cablati” per la cura: riportarla nel lavoro significa rimettere insieme ciò che abbiamo separato.
Qual è il suo concetto personale di “cura”?
In una relazione tra due persone, la cura è la domanda che rende possibile la relazione: essere visti per esistere. È anche la risposta: abbiamo bisogno di dare per esistere. Questo scambio di sguardi è tra pari, non può andare in una sola direzione e, quando è amorevole, allarga gli orizzonti nello spazio e nel tempo. Tradotto sul lavoro: la cura “aumenta” i ruoli con relazioni che fanno crescere entrambi.
Cosa impedisce in ambito lavorativo di prenderci cura degli altri e di noi stessi?
Ogni giorno siamo spinti a “non avere cura”: fretta, urgenza, bisogno di semplificare. Sullo sfondo agisce il modello invisibile del lavoratore “always on”. Risultato: restringiamo lo sguardo, non vediamo più noi stessi e quindi nemmeno gli altri. La crisi della cura inizia lì.
Un ambiente privo di cura: quali effetti sul benessere?
Quando la cura manca, emergono costi nascosti: turnover, malessere, perdita di conoscenze, assenteismo e presenteismo. Le persone si allontanano dal senso, le emozioni vengono rimosse, la qualità del lavoro cala. In pratica: si spegne il motore che tiene insieme attenzione, decisione e relazione.
Quanto conta valorizzare l’intelligenza emotiva oggi?
Al contrario di ciò che si pensa comunemente, noi biologicamente non siamo “creature pensanti che sentono”, ma “creature sensibili che pensano”: le emozioni informano i pensieri e orientano le scelte. Se le ignoriamo, peggiorano efficacia e legami. Se le nominiamo, migliorano ascolto, fiducia e performance.
La maternità come fonte di pratiche di cura: cosa le ha insegnato?
Mi ha mostrato che la cura è un istinto fondante della specie umana e fonte di competenze di leadership: ascolto, prossimità, responsabilità. Ho visto il contrasto con l’ideale “always on” e ho iniziato a rimettere in circolo risorse già presenti. Detto in termini professionali: la maternità mi ha mostrato che cambiare le parole sul potere cambia i comportamenti del potere… in meglio.
Come la transilienza ci aiuta a superare stereotipi e ruoli rigidi?
La transilienza è la meta-competenza che fa fluire consapevolmente competenze ed energie tra i ruoli. Funziona così: divento consapevole di un tratto che ho in un ruolo, ne identifico i comportamenti, li sperimento altrove e osservo l’effetto che hanno su di me e sugli altri. Così si amplia l’identità e si rompono le gabbie di ruolo, portando nel lavoro una dimensione di cura che aumenta capacità, responsabilità e visione.
Un “superpotere” della cura a cui è affezionata?
Vedere. La cura ci dota di strumenti per vedere: attenzione, curiosità, conoscenza, volontà, valore. Quando lo sguardo è intenzionale e amorevole, la realtà restituisce più informazioni e più possibilità. Questo cambia la qualità delle azioni e dei risultati, sul lavoro e nella società.
A chi consiglia il libro?
A chi vuole riavvicinare cura e lavoro per migliorare relazioni ed efficacia e per riaccendere la speranza nel futuro. A chi si sente stretto, ridotto in un solo ruolo, o sta attraversando una transizione. A chi guida persone e vuole passare da errori già noti a sguardi coraggiosi, che cambiano il quotidiano. È un invito pratico a rimettere in circolo umanità e competenze.