Crocevia di popoli e punto di convergenza e divergenza geostrategica tra potenze mondiali e regionali, la regione rischia di essere uno dei prossimi teatri della lotta per il primato mondiale
L’instabilità politica e i contrasti etnici e confessionali, tra discorso identitario e globalizzazione, ne fanno un terreno ideale per le guerre per procura
L’anello che non tiene
Mentre lo scontro tra Mosca e Washington minaccia la sicurezza alimentare delle popolazioni dei Balcani, le ripetute manifestazioni di interesse di Kosovo e Bosnia Erzegovina per un’adesione all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato) mettono a repentaglio i fragili equilibri geopolitici regionali. Quasi immediata la risposta a Sarajevo dell’ambasciatore russo Igor Kalabukhov, che ha preso l’esempio della guerra in Ucraina per illustrare la reazione di Mosca in caso di «minacce». A queste parole ha risposto la presidente del Kosovo Vjosa Osmani, che aveva chiesto un rapido accesso alla Nato tre giorni dopo l’inizio del conflitto, esortando il presidente statunitense Joe Biden a esercitare la sua influenza in tal senso. La Russia, secondo Priština, ha un «interesse distruttivo» nei Balcani e ha nel mirino soprattutto Kosovo, Bosnia Erzegovina e Montenegro (membro Nato dal 2017); al suo fianco, invece, potrebbe schierarsi la Serbia, considerata da come un satellite di Mosca, come la Bielorussia sul fronte europeo-orientale. Il 1 marzo, il Parlamento europeo aveva votato una bozza di risoluzione che condanna il Cremlino ed esprime rammarico per il mancato allineamento di Belgrado. Nei Balcani, infatti, alcuni paesi fanno parte sia dell’Unione europea (Ue), sia della Nato, (Grecia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Slovenia e Croazia), mentre altri sono membri esclusivamente della Nato, come Albania, Macedonia del Nord e Montenegro. Inoltre, il vertice di Ljubljana di novembre 2021 aveva lasciato intendere una ripresa del processo di integrazione europea di Serbia, Montenegro, Kosovo, Albania, Macedonia del Nord e Bosnia Erzegovina, ma per il Montenegro permane il problema del mancato riconoscimento di Grecia e Spagna, mentre la Bosnia Erzegovina è soggetta al veto delle due entità che la compongono, la Repubblica serba e quella croato-bosniaca.
Oligarchi russi, mafia turca… e fantasia
Intanto, gli Stati Uniti hanno stabilito nella regione due importanti basi militari: la prima, Camp Bondsteel, costruita nel 1999 in Kosovo; la seconda, invece, è in via di realizzazione in Albania, dove già si trova la base Nato di Kuçovë. Inoltre, fra l’intraprendenza statunitense e la scarsa disponibilità all’impegno di Bruxelles (che nei Balcani vede più una sacca di reclutamento di manodopera a basso costo che non un’area di interesse geostrategico), si è inserita nell’ultimo decennio l’azione di Pechino, che procede lungo due direttrici parallele: gli accordi bilaterali in settori strategici e la piattaforma multinazionale 17+1, nata nel 2012 a Budapest e abbandonata l’anno scorso dalla Lituania. Tra gli accordi bilaterali, si possono citare quelli con la Grecia (a partire dal porto del Pireo) e con il Montenegro, cui l’intervento di banche europee e statunitensi ha evitato di dover cedere a Pechino parte del suo territorio per ripagare il debito relativo alla costruzione dell’autostrada Bar-Boljare. Contestualmente, nel porto montenegrino di Tivat, si trovano ancorati gli yacht di diversi oligarchi russi, malgrado la fedeltà euroatlantica di Podgorica. L’espansionismo economico e commerciale cinese, peraltro, oltre a collidere con gli interessi Usa, si è scontrato con gli le mire della Turchia, che da qualche anno nei Balcani affianca la diplomazia e gli investimenti del governo alle attività del crimine organizzato. Ad esempio, Sedat Peker, accusato di esserne tra i capi, fuggito dalla Turchia, avrebbe subito cercato rifugio nei Balcani, tra Albania, Macedonia del Nord, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia Erzegovina. In tal modo, Ankara, che finora ha stretto accordi tattici con Mosca, mantenendo nei confronti di Pechino un’indifferenza ostile e verso Bruxelles un’ambigua diffidenza, ha approfittato della sua appartenenza alla Nato per aumentare la sua influenza nei paesi balcanici che ne fanno parte, e della sua “coesistenza pacifica” con la Russia per espandersi nei territori dei suoi alleati regionali, soprattutto Ungheria, Serbia e Montenegro.
Polarizzazioni e intrecci di potere
Nondimeno, mentre Podgorica ha preferito aderire alle sanzioni europee alla Russia, in Serbia e Ungheria sono stati ultimamente rieletti i presidenti uscenti, rispettivamente Aleksandar Vučić (con una vittoria meno netta) e Viktor Orbán, che hanno basato la loro campagna elettorale anche sugli equilibri che hanno mantenuto in relazione alla guerra in Ucraina. Un conflitto che ha polarizzato sia le complesse relazioni tra gli Stati balcanici, sia i rapporti tra le forze politiche che si contendono le opinioni pubbliche dei singoli paesi, come dimostra lo scontro politico di gennaio, in Croazia, tra presidente ed esecutivo. Il trionfo schiacciante di Orbán, peraltro, ha deteriorato le relazioni tra Ungheria e Polonia (quest’ultima russofoba e fedelissima ancella di Washington in Europa orientale), entrambe membri dell’Ue, bacchettate da Bruxelles che le accusa di violare lo Stato di diritto e rimprovera loro il rifiuto di accogliere rifugiati e migranti impantanati lungo la rotta balcanica. Quest’ultima, peraltro ha contribuito all’infittirsi delle reti di relazioni criminali nella regione, che, oltre ai traffici illeciti consueti (armi, droga, prostituzione), hanno cercato di monopolizzare i passaggi di confine. Infine l’intreccio tra i fenomeni transnazionali legati al crimine organizzato, e i particolarismi nazionalistici e confessionali nati dopo la dissoluzione dei sistemi comunisti (con il beneplacito, quando non con il sostegno, di Usa ed Europa, in particolare della Germania) ha dissestato il tessuto sociale dei singoli paesi, rendendoli facile preda di instabilità politica e infiltrazioni esterne. Al punto che le regioni balcaniche a maggioranza musulmana sono state tra le principali sacche di provenienza dei combattenti stranieri del cosiddetto Stato islamico (noto come Isis o Daech).
L’opzione della triarchia imperiale
Minati dalle propagande nazionaliste e da presunte fratellanze islamiche, secoli di convivenza e di pluralismo non sono bastati a prevenire l’esplosione di conflitti armati. Intanto, Cina, Russia e Usa, i tre imperi che si contendono mercati e postazioni strategiche nella regione, sembrano sempre più lontane dal reciproco riconoscimento. Così, nel vuoto geopolitico lasciato da Bruxelles, la Turchia intravede un prezioso orizzonte per riaffermare la propria influenza sugli ex domini ottomani del vecchio continente.