La Presidente del Consiglio esce rafforzata da questa sessione. La sua strategia è stata quella della prudenza: non ha svuotato le casse dello Stato, preferendo conservare spazi fiscali strategici per il 2027, l’anno che precederà le prossime elezioni politiche. Meloni incassa la tenuta della maggioranza e un testo che non irrita i mercati, posizionandosi come garante della stabilità.
Il presidente di Confindustria può sorridere. La manovra strizza l’occhio alle imprese con la conferma di diversi sgravi e un’impostazione che privilegia la produzione. Dopo periodi di freddezza tra via dell’Astronomia e il governo, Orsini riporta l’associazione degli industriali al centro della scena decisionale.
Nonostante le proteste di piazza (specialmente della Uil in tandem con la CGIL), il sindacato guidato da Sbarra (Cisl) ottiene risultati concreti sulla detassazione dei premi di produzione e sul taglio del cuneo fiscale, misure che vanno direttamente nelle tasche dei lavoratori dipendenti, garantendo una boccata d’ossigeno ai redditi medi e bassi.
Il leader della Lega è il grande insoddisfatto. Nonostante i proclami, non è riuscito a portare a casa i vessilli storici del Carroccio, come una riforma incisiva delle pensioni (Quota 41 rimane un miraggio) o il Ponte sullo Stretto finanziato come avrebbe voluto. La sensazione è quella di un leader che fatica a marcare il territorio di fronte all’egemonia di Fratelli d’Italia.
Il titolare del MEF esce dalla sessione visibilmente provato. Se da un lato ha tenuto i conti in ordine (secondo i dettami europei), dall’altro ha dovuto mediare costantemente tra le richieste populiste degli alleati e la realtà dei numeri. Le tensioni interne con il suo stesso segretario di partito, Salvini, lo lasciano in una posizione politicamente più fragile rispetto all’inizio dei lavori.
Una delle battaglie più dure si è consumata sul tentativo di spostare parte del TFR verso l’Inps, una mossa che ha creato forti tensioni con le parti sociali e i fondi pensione.
Cinque norme sono state stralciate su pressione del Quirinale, a dimostrazione di una scrittura del testo a tratti approssimativa o troppo spinta verso forzature regolamentari.
Il governo sembra aver scelto di dialogare in modo differenziato con i sindacati, premiando la linea meno conflittuale della Cisl e isolando la protesta della CGIL.
La manovra 2025 non è una rivoluzione, ma un assestamento politico. Meloni consolida il potere, le imprese ottengono garanzie, mentre la Lega di Salvini deve digerire un boccone amaro, confermando che l’asse del governo è saldamente nelle mani di Palazzo Chigi.
