Basterebbe un dato per raccontare l’urgenza di una riforma complessiva della giustizia in Italia: ogni anno il nostro paese perde circa un punto percentuale di PIL, circa 20 miliardi di Euro, a causa delle lentezze del sistema giudiziario. Basterebbe questo dato ma purtroppo ce ne sono molti altri. E ognuno rappresenta un pezzo malato dell’architettura istituzionale del nostro paese.
Competitività delle imprese e scarsa attrattiva per investitori esteri
Tutti i principali istituti internazionali di monitoraggio, dalla Banca Mondiale alla Banca d’Italia passando per il CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice) e l’Ocse, concordano nel considerare l’Italia uno dei paesi con la più bassa performance in campo giuridico, con tempi di risoluzione delle controversie in alcuni casi addirittura doppi rispetto alla media dei paesi Ocse (2866 giorni contro una media di 788 giorni). Una giustizia inefficiente impatta negativamente sulla competitività delle imprese a causa dei maggiori oneri collegati a interessi e costi legali. Inoltre se il tribunale è lento, la soluzione è rinviata, e ciò incentiva comportamenti opportunistici da parte di cittadini e imprese, mentre scoraggia i grandi gruppi ad aprire filiali. A questa deficienza del sistema giudiziario si aggiunga il carico normativo e burocratico, l’inefficacia e l’instabilità dei governi e sarà facile comprendere la scarsa attrattiva del nostro paese per gli investitori esteri.
La violazione dei diritti umani e la carcerazione punitiva
Un discorso a parte va fatto per la questione del sovraffollamento e disfunzionamento, ormai strutturale, delle carceri italiane dove i detenuti sono sottoposti ad un “trattamento inumano e degradante” come ha affermato la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti Umani ormai quasi dieci anni fa. Oltre alla vergogna per la palese violazione delle convenzioni sui diritti umani, anche questo aspetto rappresenta un costo sociale notevole. Se andiamo a confrontare i tassi di recidiva tra chi entra in carcere e i pochi (purtroppo) che riescono a beneficiare di misure alternative, risulta evidente che il carcere sia un ambiente criminogeno. Un’istituzione arcaica e dannosa. Chi vi entra non può che aumentare il gap tra le sue competenze e quelle richieste dal mondo esterno per una vita socialmente dignitosa, con il risultato di vedere notevolmente ridotte le sue possibilità di reinserimento nel tessuto sociale.
Giustizia mediatica
C’è poi la questione dell’uso politico della giustizia, che lede il diritto dei cittadini di scegliere da chi essere amministrati. Nonostante siano previsti tre gradi di giudizio per arrivare ad una condanna definitiva, è sufficiente una sentenza di primo grado se non un semplice avviso di garanzia, per far scattare un processo mediatico che si risolve con una “condanna” di fatto e la conseguente distruzione della carriera politica. Emblematica in questo senso la vicenda dell’ex presidente della Regione Campania Bassolino che venne inquisito e costretto a dimettersi per presunti illeciti nella gestione del trattamento dei rifiuti. Dopo 17 anni, 19 processi e 19 assoluzioni con formula piena chi può quantificare il danno arrecato all’imputato e ai cittadini campani?
Il sistema Palamara
Infine c’è il caso delle nomine concordate nel Consiglio Superiore della Magistratura, il cosiddetto caso Palamara, che ha portato alla radiazione del giudice dalla magistratura il 9 ottobre 2020 per aver “discusso illecitamente e tentato di concordare con persone estranee al CSM” la nomina del procuratore di Roma. Questa vicenda, rappresentata dallo stesso Palamara come un sistema strutturato e condiviso per la spartizione delle nomine di maggior prestigio tra le diverse correnti della magistratura, ne sta erodendo l’immagine istituzionale di imparzialità e irreprensibilità. Tanto che lo stesso Presidente della Repubblica, è intervenuto più volte, anche di recente, per sollecitare il parlamento italiano a riformare l’organizzazione e il sistema di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura.
Economia o diritti. Quale giustizia?
Di fronte a queste distorsioni storiche e trasversali dell’amministrazione della giustizia in Italia, la Comunità Europea ha vincolato l’erogazione dei fondi del Next Generation EU all’approvazione di una serie di riforme, in particolare quella del processo penale, del processo civile e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il governo ha imposto una notevole accelerazione a queste riforme in discussione da tempo. E infatti il parlamento ha recentemente approvato la riforma per l’efficienza del processo civile e quella del processo penale, senza possibilità di emendamenti ne articoli aggiuntivi avendo il governo sottoposto entrambi i testi alla questione di fiducia. La prima, che punta a ridurre del 40% i tempi di svolgimento dei processi e ad alleggerire il carico di lavoro dei tribunali, non ha trovato particolari resistenze tra i diversi gruppi parlamentari. È presto per dire se le misure prese sono efficaci, ma sicuramente, anche con la riforma del processo penale, è stato rimosso un altro ostacolo all’erogazione dei fondi per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Più aspri invece i toni e difficili le mediazioni tra i diversi gruppi che compongono la maggioranza, per quanto riguarda la riforma del processo penale, dove il parlamento è andato a modificare la cosiddetta legge Bonafede che prevedeva il blocco della prescrizione in primo grado. Ma il compito più difficile per la ministra Cartabia sarà, probabilmente, onorare il terzo impegno di riforma preso con la Comunità Europea: la riforma del CSM. Oltre che dalle ovvie posizioni di interesse e dalle vicende giudiziarie in corso, l’approvazione di questa riforma, di cui non c’è ancora un testo, è minata anche dalla prossima elezione del presidente della Repubblica, che vede tra l’altro come principali candidati proprio la ministra Cartabia e il presidente Draghi.
Per veder migliorare qualcosa sul fronte dei diritti invece ci saranno da tenere d’occhio le evoluzioni della prossima tornata referendaria promossa dai Radicali. Tra qualche mese infatti si andrà a votare per la legalizzazione della cannabis e per i 6 quesiti referendari per la giustizia giusta. Il referendum sulla legalizzazione delle droghe leggere potrebbe produrre l’effetto di far rientrare lo Stato in una condizione di legalità e rispetto delle convenzioni sui diritti umani da esso stesso sottoscritte. Circa un terzo della popolazione detenuta infatti si trova ristretta per questioni inerenti alla produzione, detenzione o cessione di marijuana. Se a seguito di una probabile vittoria dei proponenti la legalizzazione (visto il grande successo della raccolta firme che lascia credere che la questione sia molto sentita tra la popolazione), il parlamento legiferasse nel senso della depenalizzazione, oltre a poter contare sui futuri introiti derivanti dalla commercializzazione legale, lo Stato beneficerebbe anche di un notevole alleggerimento del sistema penitenziario. Per quanto riguarda invece i sei quesiti referendari sulla giustizia giusta, il dibattito sull’efficacia dei quesiti e sulle conseguenze è ancora in alto mare, ma importanti contributi potrebbero arrivare dal quesito sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità civile dei magistrati. Un dibattito pubblico più approfondito su questi temi sarebbe auspicabile, ma viste le scadenze imminenti e gli impegni presi dal governo, c’è da credere che la tenzone sarà tutta rivolta alle riforme necessarie allo sblocco dei fondi europei e per una giustizia più attenta a garantire i diritti si vedrà.