Parità di genere, una strada in salita

Passato l’8 marzo, resta il problema: analizzando l’occupazione femminile in Italia emerge che il fenomeno delle working poors (lavoratrici povere) ha a che fare anche con la discriminazione di genere.

Il livello di occupazione femminile colloca l’Italia al penultimo posto in Europa (dati Eurostat 2020) e con oltre una dozzina di punti in meno rispetto ai valori medi europei. Ciò nonostante, allargando lo sguardo e adottando una prospettiva di medio-lungo periodo, il lavoro femminile in Italia ha subìto una notevole evoluzione.

Il nuovo numero del periodico statistico “Dati Inail”, curato dalla Consulenza Statistico Attuariale dell’Istituto e pubblicato in occasione della Giornata internazionale della donna, si apre con un’analisi del divario retributivo tra i generi in Europa. Il principio della parità di retribuzione per lo stesso lavoro o lavoro di pari valore è stato sancito nei trattati dal 1957 e tradotto nel diritto dell’UE. Negli ultimi nove anni, però, il gap tra lavoratori e lavoratrici è diminuito solo di poco meno di due punti percentuali e attualmente la differenza di retribuzione è stimata essere pari al 14,1%. Le donne, in pratica, guadagnano 86 centesimi per ogni euro guadagnato dagli uomini e avrebbero bisogno di lavorare due mesi in più per compensare questa discrepanza.

Le donne che rimangono nel mercato del lavoro, oltre ad essere vittima del gap salariale – ed a guadagnare meno degli uomini a parità di mansioni – vivono una condizione di segregazione sia orizzontale, sia verticale. Orizzontale perché lavorano prevalentemente in ambiti meno prestigiosi e meno retribuiti (e se non lo sono, lo diventano, pensiamo all’insegnamento), verticale perché è raro trovare donne nelle posizioni apicali. Solo il 28% delle posizioni dirigenziali nelle aziende private italiane è ricoperto da donne. Ed è abbastanza intuitivo che non essere nelle posizioni apicali significa non poter dare un’impronta al mercato del lavoro che tenga conto dei bisogni delle donne, in particolare nell’ambito della conciliazione dei tempi lavoro-famiglia. E’ infatti ancora oggi questo il punto cruciale nella vita di molte donne: siamo ancora ben distanti dalla parità di genere nella distribuzione dei ruoli di cura. Il nostro Paese ha un tasso di occupazione del 57% delle madri tra i 25 ed i 54 anni che si occupano di figli piccoli o parenti non autosufficienti. Questo a fronte dell’89,3% dei padri. Lo attesta l’Istat nel report “Conciliazione lavoro e famiglia”. Inoltre si registrano diverse dinamiche occupazionali tra madri e donne senza figli, più evidenti nel Mezzogiorno (16% il divario) e più contenute a Centro (11%) e al Nord (10 per cento).

Basta pensare che nelle coppie con figli e in cui entrambi i partner lavorano, le donne dedicano in media il 22% del proprio tempo al lavoro familiare, mentre per gli uomini la percentuale scende al 9%. Gli asili rimangono problema: poco meno di un terzo delle famiglie con figli minori usa i servizi pubblici o privati, tra cui anche le scuole dell’infanzia, baby-sitter o altro. Nel caso degli asili nido, anche quelli statali sono troppo costosi. A colmare questa mancanza sono i nonni: il 38% conta infatti sull’aiuto di familiari oppure di amici. Tra le madri di figli piccoli che dicono di non utilizzare i servizi, il 15% ne avrebbe bisogno (una quota che sale al 23,2% per chi ha figli fino a 5 anni). Le motivazioni per le quali non si ricorre all’utilizzo dei servizi sono perché troppo costosi (9,6%) o assenti o senza posti disponibili (4,4%).

Tuttavia nell’era Covid, con i lunghi lockdown e lo smart working, sembra essersi sviluppata tra gli uomini una maggiore consapevolezza del proprio ruolo di padri e una conseguente maggiore condivisione delle responsabilità familiari. Secondo i nuovi dati Ipsos per Laboratorio Futuro, una grande maggioranza di uomini (65%), infatti, riconosce la discriminazione come motivo principale per cui le donne guadagnano meno degli uomini e ben il 61% degli uomini che lavorano riconosce che la difficoltà di accesso ai ruoli dirigenziali è dovuta in primo luogo alla discriminazione di genere.

Un modello di riferimento per l’Italia dovrebbe essere la Spagna, che è diventato il primo Paese al mondo ad equiparare madri e padri, facendo in modo che la maternità non sia più vista come un impedimento all’assunzione delle donne. Stiamo parlando di un Paese latino simile al nostro e non nordico dove le politiche familiari da sempre sono più equilibrate. Che cosa stiamo aspettando a trovare un po’ più di coraggio anche in Italia e andare oltre quei dieci giorni di congedo obbligatorio per i neo-papà italiani?

Giulia Cortese

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