Nell’ordito complesso della nostra vita sociale, le feste costituiscono un tessuto simbolico denso, stratificato, carico di una ritualità che affonda le radici nella tradizione e nell’identità collettiva.
Natale, Pasqua, Ferragosto: sono molto più che date sul calendario sono momenti ad alta densità emotiva e culturale, in cui si condensano aspettative, nostalgie, obblighi familiari, ma anche retoriche sociali e mediatiche.
È qui, in questa ritualizzazione del tempo, che si consuma spesso una sottile frizione tra l’individuo e la tradizione, tra il sentire personale e il dover essere sociale.
La festa come istituzione sociale e culturale, dovrebbe teoricamente rappresentare uno spazio di sospensione, un’interruzione gioiosa della quotidianità, una soglia liminale in cui l’identità si rigenera.
Ma sempre più frequentemente, ciò che si esperisce è l’opposto: una forma di costrizione mascherata da festa, una performance identitaria imposta, un teatro degli affetti dove i ruoli sono assegnati prima ancora che si possa scegliere se recitarli.
Il pranzo di Pasqua, ad esempio, non è soltanto un convivio gastronomico: è una messa in scena spesso inconsapevole della tenuta della famiglia, della riconferma delle gerarchie affettive, delle narrazioni generazionali.
Eppure, quanti, seduti a quella tavola, si ritrovano a recitare battute che non sentono più proprie, in uno spazio che invece di accogliere finisce per comprimere?
Il cinema, da sempre specchio deformante e rivelatore della realtà, ha saputo intercettare con lucida ironia o feroce disincanto queste dinamiche.
In Parenti serpenti di Monicelli, il pranzo natalizio si fa allegoria nerissima dell’ipocrisia familiare, laddove l’affetto si tramuta in strategia e calcolo.
In Festen, capolavoro danese firmato da Thomas Vinterberg, la festa diventa vero e proprio dispositivo di verità: ciò che è latente irrompe sulla scena, rendendo la ritualità l’occasione di una rottura anziché di una riconciliazione.
Anche nella commedia più disimpegnata – si pensi a La cena di Natale di Marco Ponti – l’intimità del focolare domestico è spesso il luogo privilegiato per l’esplosione di tensioni represse, contraddizioni irrisolte, desideri inascoltati.
Di fronte a questa deriva performativa del festeggiare, si impone la necessità – quasi antropologica – di riscrivere i codici. Di immaginare una nuova grammatica dell’intimità celebrativa.
Una grammatica che non rinneghi la tradizione, ma la decostruisca con intelligenza critica, restituendo all’individuo la possibilità di scegliere – davvero – come e con chi condividere il proprio tempo simbolico.
Si moltiplicano, non a caso, le esperienze di “feste alternative”: piccoli gesti di resistenza e di autenticità. C’è chi sceglie il silenzio alla caciara, la solitudine alla pantomima familiare, un pasto vegano alla liturgia dell’agnello. C’è chi viaggia, chi disconnette, chi reinventa.
Non per spirito di provocazione, ma per necessità esistenziale. Perché l’autenticità, a volte, passa anche attraverso la rinuncia alla messa in scena.
La narrazione dominante ci invita alla socialità forzata, alla condivisione obbligata, rivendicare il diritto a celebrare altrimenti è un atto di libertà.
Non un rifiuto del rito, ma una sua riformulazione: più intima, più liquida, più aderente al proprio sentire. Forse è proprio in questa riscrittura gentile in questa “eresia affettiva” che si cela il futuro delle nostre celebrazioni.
E allora, forse, non si tratta di negare la festa, ma di restituirle il suo senso più profondo: quello di un tempo sospeso in cui ciascuno possa riconoscersi, senza dover indossare maschere, né replicare copioni che da tempo non ci appartengono più.