Intervista con Enrico Bucci Phd.
Enrico Bucci, una figura di primo piano nel panorama italiano ed internazionale, noto tanto per la sua attività nel settore della research integrity, quanto per la sua instancabile divulgazione, quanto infine per la sua produzione scientifica.
Professore , come concilia queste due anime, quella rigorosa della ricerca e quella più divulgativa e critica dell’informazione?
Di fatto, non credo che vi sia molto contrasto: io ho sempre ritenuto un dovere per chi, come me, è stato formato ed è professionalmente cresciuto grazie all’università pubblica e grazie ai finanziamenti pubblici, restituire almeno in parte quanto ricevuto alla società.
E siccome credo in quella libera società degli esseri umani, e degli scienziati in particolare, che non ha barriere o confini di sorta in quanto a universalità dei propri diritti e doveri, non restringo la mia attività al mio paese, ma cerco, ove possibile, di allargare il mio campo d’azione oltre i confini d’Italia.
Uno dei temi di cui si occupa spesso è la disinformazione scientifica. Quali sono, a suo parere, le cause principali di questo fenomeno e come possiamo difenderci da essa?
La disinformazione scientifica è un fenomeno complesso, che non nasce semplicemente dall’ignoranza o dalla mancanza di istruzione, ma si radica più profondamente nei limiti cognitivi umani, negli interessi economici e politici, nella sfiducia nelle istituzioni e nelle dinamiche di comunicazione digitale.
Gli esseri umani tendono naturalmente a cercare conferme delle proprie convinzioni, a preferire spiegazioni semplici e a rifiutare informazioni che mettono in discussione la propria identità o i propri valori.
Questo atteggiamento, sebbene comprensibile, diventa pericoloso quando si applica a questioni che richiedono competenze specifiche, come i vaccini, il cambiamento climatico o la genetica.
A tutto ciò si aggiunge la crescente manipolazione della scienza da parte di attori che la usano per giustificare scelte ideologiche o interessi di mercato, selezionando dati, distorcendo risultati o amplificando controversie apparenti.
I social network, infine, amplificano il problema rendendo virale ciò che emoziona o polarizza, non ciò che è vero. Difendersi dalla disinformazione significa allora investire in educazione scientifica fin dalle scuole, rafforzare l’autonomia e l’integrità della comunicazione scientifica, sostenere un giornalismo competente e responsabile, ma anche sviluppare nei cittadini gli strumenti per valutare le fonti, riconoscere i conflitti di interesse e distinguere tra opinione e conoscenza.
La scienza non è infallibile, ma resta il metodo più affidabile che abbiamo per comprendere il mondo: solo imparando come funziona, possiamo anche imparare a non farci ingannare da chi la usa male o la combatte per convenienza.
Le informazioni viaggiano a velocità incredibile, qual è il ruolo della divulgazione scientifica, e più in generale dell’informazione di qualità, nella società?
In una società in cui le informazioni si diffondono con una rapidità senza precedenti, la divulgazione scientifica e l’informazione di qualità assumono un ruolo cruciale non solo nel trasmettere conoscenze, ma nel creare le condizioni stesse per una cittadinanza consapevole.
Non si tratta soltanto di “spiegare bene” la scienza, ma di contrastare la confusione tra opinione e evidenza, tra sensazionalismo e metodo, tra esperienze soggettive e dati verificabili.
Una buona divulgazione non semplifica la realtà fino a renderla irriconoscibile, ma aiuta a renderla leggibile senza distorcerla. Rende visibili i processi con cui si costruisce la conoscenza scientifica – dubbi, esperimenti, confutazioni, revisioni – restituendo al pubblico non tanto un elenco di verità da imparare, ma una mappa per orientarsi nel pensiero critico. In questo senso, informare bene è anche un atto politico, perché restituisce ai cittadini la possibilità di comprendere le scelte pubbliche, di valutarne la coerenza con le evidenze e di esercitare un controllo democratico.
Quando manca un’informazione affidabile, o quando viene sommersa dal rumore della disinformazione, la conseguenza non è solo l’errore individuale: è il cortocircuito delle democrazie. Una società disinformata è facilmente manipolabile, perché scambia la voce più forte per quella più competente, e il dubbio metodico per un attacco ideologico.
Per questo, la divulgazione e l’informazione scientifica di qualità non sono un lusso per tempi tranquilli, ma una condizione necessaria per il funzionamento stesso di una società libera, razionale e capace di decidere sul proprio futuro.
Professor Bucci, un tema che genera spesso dibattito è quello della medicina omeopatica. Dal punto di vista scientifico, qual è la sua posizione in merito all’efficacia di queste pratiche?
Dal punto di vista scientifico, l’efficacia della medicina omeopatica non trova alcuna conferma affidabile. Le sue basi teoriche – come la diluizione estrema delle sostanze e la presunta “memoria dell’acqua” – sono incompatibili con tutto ciò che sappiamo di chimica, fisica e biologia.
Numerosi studi clinici controllati hanno dimostrato che i rimedi omeopatici non hanno effetti superiori al placebo, e le metanalisi più rigorose lo confermano sistematicamente.
Questo non significa che chi assume un rimedio omeopatico non possa sentirsi meglio: il punto è che questo miglioramento dipende da fattori psicologici, dall’attenzione ricevuta, dall’andamento spontaneo della malattia, non da un principio attivo realmente presente e funzionante.
Continuare a parlare di “medicinali” omeopatici è quindi fuorviante. In un’epoca in cui si richiede alla medicina basata sulle prove il massimo rigore, tollerare pratiche che non rispettano nemmeno i criteri minimi di efficacia significa fare un’eccezione ingiustificata e pericolosa.
Ancor più preoccupante è che questi prodotti siano venduti in farmacia, con indicazioni terapeutiche implicite o esplicite, e addirittura resi detraibili fiscalmente, come se si trattasse di cure reali. La scienza medica ha limiti e incertezze, ma si fonda su un metodo di verifica e falsificazione continua: l’omeopatia, al contrario, resta impermeabile alle prove contrarie.
E se non si può dimostrare che funziona, la responsabilità etica e civile è quella di dirlo chiaramente. Continuare a tollerare l’equivoco, per convenienza economica o per compiacere le convinzioni di alcuni, significa tradire il patto di fiducia tra scienza, medicina e società.
Nonostante le evidenze scientifiche, l’omeopatia continua ad essere praticata e a godere di una certa popolarità. È stato lei a sollevare il problema della incostituzionalità dei fondi per la medicina omeopatica. E come spiega questa discrasia tra il rigore scientifico e la percezione pubblica circa la validità dell’ omeopatia?
Sì, ho sollevato il problema perché ritengo che il finanziamento pubblico e persino la detraibilità fiscale dei prodotti omeopatici pongano un serio problema di costituzionalità: lo Stato italiano, per sua stessa Costituzione, ha l’obbligo di tutelare la salute come diritto fondamentale dell’individuo, basandosi sulle evidenze della scienza.
Questo vincolo non è negoziabile, nemmeno dal Parlamento. E allora non si può, da un lato, chiedere rigore nella valutazione dei farmaci, pretendere che la medicina ufficiale si fondi su prove solide, e dall’altro finanziare prodotti che, per definizione, non superano alcuno dei criteri minimi di efficacia.
È una contraddizione inaccettabile, che mina la coerenza dell’intero sistema sanitario.
Quanto alla popolarità dell’omeopatia, la spiegazione sta in una combinazione di fattori. C’è innanzitutto una carenza culturale diffusa: molte persone non hanno strumenti adeguati per distinguere tra una cura provata e un placebo ben confezionato.
L’omeopatia si presenta con linguaggio medico, in farmacia, con confezioni che sembrano quelle dei farmaci veri, e questo induce in errore. Inoltre, la narrazione omeopatica risponde a bisogni profondi: rassicura, è percepita come “naturale”, offre soluzioni semplici e soprattutto ascolto, in un contesto in cui la medicina ufficiale, pressata dai tempi e dai costi, spesso non riesce più a farlo.
Ma tutto questo non giustifica il compromesso con l’irrazionalità. Se una persona sceglie liberamente di affidarsi all’omeopatia, lo può fare – ma deve sapere esattamente cosa sta assumendo: un prodotto senza principio attivo, senza effetti dimostrati, e senza il diritto di essere rimborsato dalla collettività.
La percezione pubblica, insomma, è il risultato di disinformazione, suggestione culturale e – non dimentichiamolo – di precise strategie di marketing. Il compito della scienza e delle istituzioni non è assecondare ciò che “piace” o “funziona” psicologicamente, ma garantire che ciò che viene proposto come cura sia realmente efficace.
Solo così si protegge la salute pubblica e si conserva la fiducia nella medicina. La tolleranza verso l’omeopatia, oggi, non è apertura: è una resa culturale.
Quali rischi possono derivare dall’affidarsi esclusivamente a terapie come l’omeopatia, soprattutto in presenza di patologie serie?
Affidarsi esclusivamente a terapie omeopatiche in presenza di patologie serie è estremamente pericoloso, perché significa rinunciare a cure efficaci, ritardare diagnosi corrette e lasciare che una malattia progredisca senza opposizione.
I casi di pazienti che, credendo di curarsi con rimedi omeopatici, hanno evitato trattamenti salvavita sono purtroppo documentati e tragicamente eloquenti.
Ma il rischio non si limita all’affidamento esclusivo: esiste anche, e forse in modo più subdolo, quando l’omeopatia viene integrata a fianco della medicina basata sulle prove, perché introduce tossine cognitive nel processo decisionale del paziente.
Cosa intendiamo con “tossine cognitive”?
Intendiamo quelle credenze distorte che, una volta introdotte, minano progressivamente la capacità di valutare correttamente le informazioni mediche. Se accetto che un granulo senza principio attivo possa avere effetti terapeutici, sto già adottando un criterio alternativo a quello della prova sperimentale.
Se credo che “funzioni perché su di me ha funzionato”, sto mettendo l’aneddoto al posto dell’evidenza. Queste tossine non restano confinate: intaccano il modo in cui il paziente percepisce anche le cure convenzionali, alimentano diffidenza verso i medici, aprono la porta a pseudoterapie sempre più radicali.
Una volta avvelenato il pozzo del giudizio razionale, la medicina scientifica stessa diventa sospetta, e il paziente può iniziare a prendere decisioni sempre meno informate, anche su terapie fondamentali.
L’omeopatia, proprio perché priva di effetti specifici, si presenta come innocua. Ma la sua pericolosità non sta nel principio attivo che non c’è, bensì nell’idea che trasmette: che la scienza sia un’opinione, che tutte le cure si equivalgano, che la realtà possa essere piegata al vissuto soggettivo.
Per questo tollerarla, anche solo come “complemento”, non è neutrale. È un passo verso la diseducazione scientifica, in un campo – quello della salute – dove l’adesione alla realtà può fare la differenza tra la vita e la morte.
In quanto professore alla Temple University, ha una prospettiva internazionale sulla ricerca e sull’insegnamento. Ci sono differenze significative tra il mondo accademico italiano e quello americano che vorrebbe sottolineare?
La risposta che avrei dato un anno fa sarebbe stata molto diversa da quella che mi sento di dare oggi. Un tempo avrei sottolineato le differenze strutturali, le maggiori risorse del sistema americano, la competizione che premia il merito, la snellezza burocratica, la libertà accademica intesa come reale autonomia di ricerca e insegnamento.
Avrei anche riconosciuto i limiti del sistema italiano: la frammentazione, la precarietà cronica, le carriere bloccate, la tendenza a scoraggiare il talento invece di coltivarlo. Ma oggi, purtroppo, il quadro è cambiato radicalmente, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti.
Negli ultimi mesi, stiamo assistendo a un attacco senza precedenti alla libertà accademica proprio in quel Paese che per decenni è stato il simbolo dell’apertura intellettuale e della centralità della scienza. Interi settori della ricerca sono messi sotto pressione da gruppi politici che cercano di dettare cosa si può insegnare, quali studi si possono finanziare, quali parole si possono usare.
La storia, la biologia, la medicina stessa vengono riscritte per compiacere narrazioni ideologiche, e i docenti che si oppongono rischiano il posto o la gogna pubblica. La ricerca biomedica è diventata bersaglio di interrogazioni, censure, campagne diffamatorie.
L’insegnamento si trova sotto minaccia, non per motivi scientifici, ma per questioni identitarie e politiche.
In questo contesto, paradossalmente, l’Europa – e persino l’Italia, nonostante i suoi cronici problemi – appare oggi come un rifugio più stabile per la libertà di pensiero scientifico.
Non perché sia tutto risolto, ma perché almeno non è ancora esplosa quella forma di ostilità sistematica che in alcuni stati americani sta minando le fondamenta stesse del sapere. Non possiamo permetterci di abbassare la guardia: quello che sta accadendo negli USA è un avvertimento.
La libertà accademica non è un dato acquisito: è un equilibrio fragile, che va difeso ogni giorno con lucidità, rigore e coraggio.
