Per decenni, il cosiddetto “Effetto Flynn” ci ha illuso che l’umanità fosse destinata a diventare sempre più intelligente.
Oggi, però, i dati sembrano suggerire un’inversione di tendenza: in diverse nazioni sviluppate, il quoziente intellettivo medio ha iniziato a diminuire. Tra le cause ipotizzate dagli esperti, una delle più allarmanti non riguarda la genetica, ma lo strumento stesso con cui diamo forma alla realtà: la lingua.
Esiste un legame indissolubile tra la ricchezza del vocabolario e la capacità di elaborare pensieri complessi. Le parole non sono semplici etichette per oggetti; sono mattoni logici. Senza una conoscenza lessicale approfondita, la nostra “cassetta degli attrezzi” mentale si svuota, rendendo impossibile la costruzione di ragionamenti articolati.
Diversi studi neuroscientifici confermano che un linguaggio povero limita la plasticità cerebrale. Se non possediamo la parola per definire un concetto, quel concetto fatica a esistere nel nostro orizzonte logico.
Uno dei segnali più evidenti di questo impoverimento è l’erosione della grammatica, in particolare dei modi e dei tempi verbali.
Il declino del congiuntivo e del condizionale: Toglie sfumature al dubbio, all’ipotesi e alla possibilità.
La scomparsa delle forme composte del futuro e del participio passato: Riduce la nostra capacità di gerarchizzare gli eventi nel tempo.
Il risultato è un pensiero schiacciato sull’eterno presente. Senza una struttura verbale capace di proiettarsi nel passato o di ipotizzare il futuro, l’individuo resta intrappolato nell’immediatezza. Un pensiero limitato al momento è un pensiero incapace di pianificazione a lungo termine e di analisi storica.
L’impoverimento linguistico non colpisce solo la logica, ma anche l’empatia. Meno parole abbiamo a disposizione per descrivere ciò che proviamo (ansia, malinconia, euforia, sgomento), più le nostre emozioni diventano indistinte, trasformandosi spesso in frustrazione o aggressività. Più è povero il linguaggio, più il pensiero è scarno; e un pensiero scarno non ha gli strumenti per gestire la complessità dei sentimenti umani.
La storia e la letteratura ci hanno ampiamente avvertito: il controllo del pensiero passa per il controllo della lingua.
George Orwell in 1984 introdusse la “Neolingua”, il cui scopo era restringere l’ambito del pensiero per rendere impossibile il “psicoreato”.
Ray Bradbury in Fahrenheit 451 descrisse una società dove la riduzione del linguaggio e la distruzione dei libri servivano a mantenere una felicità superficiale e acritica.
Questi non sono solo scenari distopici. Ogni volta che accettiamo la riduzione del senso delle parole o la semplificazione estrema dei concetti in slogan, stiamo rinunciando a un pezzo della nostra libertà intellettuale.
“Se non esistono parole, non esistono pensieri. E se non esistono pensieri, non esiste pensiero critico.”
Il calo del QI mondiale è un campanello d’allarme che non riguarda solo i test di logica, ma la nostra stessa natura di esseri pensanti. Proteggere la lingua, approfondire il lessico e riappropriarsi delle sfumature grammaticali non è un esercizio di stile per accademici, ma un atto di resistenza cognitiva. Recuperare le parole significa recuperare la capacità di analizzare, criticare e, in ultima analisi, restare umani.
