Il Maestro è noto per la sua attività internazionale di docente, pianista accompagnatore e direttore d’orchestra che lo ha portato, oltre che in numerose città d’Italia (teatri lirici, festival, concorsi e corsi di perfezionamento nazionali e internazionali), in Europa (Parigi, Salle Pleyel; Dublino, National Concert Hall; Spagna, Portogallo e Grecia), negli USA (Los Angeles, Istituto Italiano di cultura), in Giappone (Tokyo, Bunka Kaikan) e in Brasile (San Paolo, Conservatorio Souza Lima. Oggi in questo spazio lo conosciamo nel suo ruolo di scrittore, narratore, saggista.
L’animo artistico dell’ospite di oggi, esplora infiniti mondi e dall’ amore per la musica alla prosa il passo è breve, soprattutto quando l’anima arde di passione e voglia di comunicare. E l’artista di oggi eccelle in diversi campi. Ho avuto il piacere di leggere alcune delle sue opere e in tutte ho ritrovato meraviglioso il suo stile narrativo, raro ai tempi nostri. Una bravura descrittiva che dipinge l’immaginario, ogni dettaglio è curato con minuzia. Il suo modo di narrare mi riporta ai grandi autori del passato; sarà per la sua formazione Classica, il suo amore viscerale per la musica lirica e le opere che l’avvolgono, ma nei suoi testi si respira quell’ eleganza della bella e curata scrittura, cosa alquanto rara oggi da trovare. Storie profonde, coinvolgenti, i suoi personaggi esplorano i loro travagliati mondi esistenziali, c’è sempre un viaggio intimistico nei libri di Pierfederici, libri che raccontano l’essere umano nelle sue debolezze, nelle sue passioni, in quel tormentato mondo di sensazioni, spesso discordanti, in cui l’essere umano molte volte vive: quella battaglia tra raziocinio e cuore che lottano dai tempi antichi. Leggendo i suoi romanzi possiamo immaginare le espressioni, luoghi e i sentimenti dei suoi protagonisti. Mi piace pensare che in lui viva un’ anima antica, che suggerisce il giusto scrivere, e tramite le sue emozioni riporti su carta opere di straordinaria bellezza. Come quest’ ultima di cui parleremo oggi .
Sull’ altare del Dio Sconosciuto è la sua nuova opera, protagonista il giovane Ruggero, come è nato questo personaggio?
Il protagonista nasce da una duplice ispirazione, in parte autobiografica ed in parte dettata dalla mia costante ricerca di rappresentare i conflitti interiori dell’uomo. L’età adolescenziale, proprio come avviene nella prima parte del mio precedente romanzo “Ascesa al regno degli immortali” e in alcuni dei miei Racconti, è a mio avviso la più adatta per ritrarre e descrivere quell’immane conflitto che ha luogo nell’individuo giovane quando si scontra con un mondo adulto nel quale non può ancora riconoscersi. Ricordo molto bene l’amarezza e la delusione che provai io stesso fra i quattordici e i diciotto anni nel veder svanire una ad una tutte le illusioni e le aspettative ideali che mi ero creato e nel dovermi adattare al mondo adulto e alle sue regole per poter trovare una collocazione reale alla mia vita, così come ricordo con una chiarezza come se fosse ieri la mia prima, fortissima delusione sentimentale, ricordo di cui ho fatto tesoro nel delineare alcuni aspetti del protagonista e della sua amata Fosca.
Oltre la parte romanzata mi piace quella più profonda dove descrive l’emozioni dei protagonisti; quale tra i suoi protagonisti, personalmente, sente più affine a sé?
Certamente il protagonista ha molto di me, ma non è un vero autoritratto: più che altro gli ho attribuito gli stessi errori, le stesse incertezze e indecisioni che hanno sempre caratterizzato la mia vita giovanile ma in molte situazioni che si trova ad affrontare il mio atteggiamento sarebbe stato diverso. Qualcosa di me c’è anche nell’amico Ravignani, nel suo tentativo di spiegare e razionalizzare tutto e di offrire un aiuto concreto a Ruggero, distogliendolo dal suo timore della crescita e del dramma che questo comporta e che prende forma concreta di visioni e fantasmi.
Nel suo libro tocca tematiche come la sessualità, i primi amori adolescenziali, il bisogno di essere sé stessi, la paura del giudizio altrui, le prime pulsioni, paure, l’insicurezza; l’importanza di ascoltare il proprio corpo, non temere ciò che manifesta. Tematiche davvero importanti che dovrebbero essere anche riprese in campo scolastico Una sua considerazione.
Il discorso è estremamente delicato ed è facile essere fraintesi. Cercherò di essere il più semplice possibile. Credo che il problema sia nella banalizzazione sempre più diffusa che da parecchi anni si sta facendo di queste tematiche, e in questo processo purtroppo è coinvolta una serie di cause concomitanti: la responsabilità della gestione delle reti internet, con la presenza di siti e video visibili a tutti, attraverso i quali si giunge con estrema facilità a trasformare gli elementi psicologici ed emozionali in pura fisicità, aspetto che è sempre esistito nell’uomo ma che adesso ha raggiunto livelli di degenerazione assoluta (nel romanzo questo aspetto è rappresentato dal primo amico di Ruggero, Giusti di Montefiore, che, essendo più anziano, crede di aiutare il protagonista portandolo in una casa chiusa a scoprire la sessualità, di fronte alla quale questi, non preparato e del tutto ignaro, rimane traumatizzato); la necessità che il ragazzo in crescita trovi dei punti di riferimento adulti in grado di mettersi nei suoi panni, e qui entrano in gioco famiglie che non riescono o non vogliono prendersi questo impegno, travolte dalle esigenze di una società che va sempre più di fretta ed è sempre più superficiale, e la scuola che, purtroppo, non pare attrezzata a fronteggiare questa realtà, così che sento costantemente di una quantità indicibile di ragazzi affidati a cure psichiatriche o a percorsi psicologici, là dove per la mia generazione si trattava di un’eccezione (eccezione di cui ho fatto parte anch’io, nella fase leopardiana e wertheriana della mia adolescenza…), o che ritengono di poter affermare la propria individualità, di gridare al mondo che esistono anche loro attraverso una negazione delle regole e dei valori che ereditano: ed ecco allora atteggiamenti al limite del lecito, violenze sui più deboli, disprezzo per tutto ciò che è cultura e arte. La ricerca del sé, che è un’istanza fortissima dell’adolescenza. ha certamente cambiato la sua natura con il passare dei decenni e ciò che era all’inizio del secolo scorso, e che vediamo rappresentata, talora in modo brutale, anche in importanti opere letterarie come “Sotto la ruota” di Hesse, “I turbamenti del giovane Torless” di Musil, “Dedalus” di Joyce, o teatrali come “Risveglio di primavera” di Wedekind o “L’anitra selvatica” di Ibsen, si è evoluto grazie ad una sempre maggiore conoscenza dei meccanismi fisici e psichici anche da parte dei giovani stessi, oltre che da una sempre minore “censura” sulla realtà fisiologica del corpo, che al giorno d’oggi credo non presenti più alcun mistero per coloro che si affacciano alle soglie dell’adolescenza. Diverso è invece il discorso dell’insicurezza, della paura del giudizio altrui, di ciò che io chiamo “navigare al buio”: questa non solo rimane ma addirittura si aggrava e viene mascherata da finta baldanza e da quello spirito di ribellione cui accennavo prima, poiché riveste un ruolo centrale in una società che ha fatto dell’ essere apprezzati per l’apparenza e non per la sostanza del proprio essere la sua ragione di esistenza e il suo scopo primario, con il corollario di fare della ricchezza l’idolo che è sempre stato ma mai come ora, nel regno del consumismo più sfrenato e della bramosia di possedere per primi l’ultimo prodotto di moda. Credo che il problema di fondo sia la scomparsa di alcuni parametri un tempo saldi e riconosciuti comunemente come validi, sui quali era possibile confrontare e assumere comportamenti, atteggiamenti e sui quali anche il giovane poteva crescere con una sorta di riferimento dal quale poi eventualmente scostarsi ma sempre con cognizione di causa: quando sento di personaggi di successo che scrivono libri vantandosi di non averne mai letto uno perché leggere è inutile, e trovano seguito in chi li prende a modello, siamo al paradosso più sfrenato: allora sarà inutile anche leggere ciò che ha scritto chi ritiene inutile la lettura, e quindi il fare si aggroviglia su sé stesso nel nulla; è logico così che chi si affaccia oggi al mondo degli adulti si trovi disorientato e portato inevitabilmente verso ciò che prima e di più gli garantisce le soddisfazioni che cerca, non importa se effimere e scadenti: l’importante è il qui e subito, una degenerazione inconcepibile per chi è cresciuto con il concetto di pienezza della vita al presente legato al pensiero del filosofo Epicuro e al “Carpe diem” di Orazio.
Amo molto la sua bravura descrittiva: saper andare a fondo nei dettagli vedere quei particolari che non tutti colgono è un dono. Le sue rappresentazioni le ha vissute per esperienza diretta o indirettamente tramite letture dei luoghi che ha descritto?
In genere tutte le mie descrizioni derivano da luoghi reali che ho visto, talora anche una sola volta e di sfuggita, ma il cui aspetto mi è rimasto nella memoria; qualche volta parto da dati reali per arricchire la descrizione di elementi di fantasia. Talora le mie descrizioni derivano da letture, visioni di immagini o fotografie; in quest’ultimo romanzo, ad esempio, non avendo mai visto dal vivo una casa d’appuntamenti, mi sono basato su descrizioni di altre opere letterarie e su ricostruzioni cinematografiche. Invece i luoghi immaginari della montagna (il paese, la cascata, il sentiero, i boschi) esistono tutti con altri nomi e geograficamente non si trovano dove li ha posti la mia fantasia ma altrove, e il collegio è un misto di una caserma dismessa e della scuola militare che ho frequentato e che ora è stata trasformata e si trova da tutt’altra parte. Nei miei lavori precedenti, ad esempio, nel romanzo “Ascesa al regno degli immortali” sia le descrizioni di Trieste che di Vienna derivano dalla conoscenza diretta di quelle città, così come avviene per i vari luoghi descritti nei “Racconti e memorie di isole e mari”; anche l’ambientazione del primo romanzo, in cui la componente descrittiva è parte essenziale della storia, prende le mosse da un luogo reale da cui poi la fantasia crea paesaggi immaginari, che vengono descritti però in modo realistico.
Ambienta il suo libro all’ interno di una Caserma, la vita militare con la sua crudezza. Ricordi giovanili o pura fantasia?
Ricordi giovanili, senza dubbio: ho frequentato una scuola militare per dieci mesi e prima di dedicarmi completamente alla musica sono stato per quasi tre anni un sottufficiale dell’Aeronautica. Non mi è stato difficile perciò ricostruire, con gli aggiustamenti dovuti all’ambientazione cronologica, l’atmosfera e il colore ambientale che si respira non tanto dentro una caserma in senso stretto quanto in una scuola militare, in cui la necessità formativa impone un rigore ed una disciplina portati all’estremo, specie se immaginiamo che, nell’epoca in cui è ambientata la storia, la guerra era già nell’aria (e tra l’altro ci sono riferimenti espliciti alle guerre coloniali, ad Adua e alla Libia). Per questo mi sono documentato anche con relazioni d’archivio degli Annali del Museo della Guerra del Regio Esercito e leggendo il libretto personale di istruzione dell’esercito di quegli anni. Ciò che emerge da queste considerazioni è il senso di alienazione e disumanizzazione che è alla base della formazione del militare quale macchina da guerra, in favore dell’appartenenza ad un corpo, ad una massa di persone molte delle quali gli sono estranee o ostili, ma dalle quali può dipendere la sua vita. Qui ha origine gran parte del conflitto interiore del protagonista, costretto alla vita e alla carriera militare ma in realtà portato per tutt’altro, per cui ciò a cui va incontro sarà la negazione assoluta delle sue aspirazioni e delle sue inclinazioni personali con conseguenze che possiamo solo immaginare.
In questa sua narrazione predomina la figura del padre di Ruggero, un generale legato più all’ onore che all’ amore per suo figlio. L’ambientazione ricrea gli inizi del 900. I tempi sono cambiati da allora, ma i figli di oggi hanno davvero la libertà di scegliere il loro futuro?
Né oggi né mai, perché – e qui lo dico in tono pessimistico ma purtroppo suffragato da un’osservazione realistica della realtà – gli elementi che concorrono alla possibilità per un ragazzo di scegliere il proprio futuro e soddisfare le proprie aspirazioni vanno ben oltre la tradizione o l’imposizione o, al contrario, la piena libertà, da parte della famiglia. Concorrono fattori ambientali, sociali, di reddito, caratteriali: quanti avrebbero avuto il talento per ambire ad alti traguardi e hanno trovato il maggiore ostacolo nel loro temperamento, nella loro emotività, e quanti sono stati ad un passo dal soddisfare i propri desideri e hanno dovuto rinunciare dolorosamente non possedendo i mezzi economici necessari e cercare altre vie di realizzazione. Conosco persone di straordinaria sensibilità che avrebbero potuto davvero dire la loro parola in ambito artistico, ad esempio, e farne dono al mondo, e il destino ha voluto invece che per sopravvivere debbano svolgere un comune impiego, dignitoso certo ma non corrispondente alle istanze della loro anima. Temo purtroppo che le nostre scelte, di allora come di oggi, non siano mai libere ma sempre condizionate dall’appartenenza ad un contesto sociale, in cui la libertà collettiva limita per forza di cose quella individuale, nonostante i principi, che spesso sono solo parole, sulla sacralità delle scelte, della libertà e delle aspirazioni dell’uomo: ma qui siamo nel regno della fiabe, nel paese di Utopia. Quanto ai padri-padroni, sembrerà assurdo ma ne esistono tuttora, se non al giorno d’oggi almeno nella precedente generazione: ancora una volta porto l’esperienza della conoscenza personale di chi ha dovuto attendere la scomparsa del padre per poter finalmente trovare la propria collocazione soprattutto personale oltre che professionale.
Nella sua opera non mancano i misteri, tra questi due presenze che colmeranno l’immaginario dei giovani militari, tra paura e curiosità. Lei personalmente crede alle presenze ultraterrene?
Personalmente sì, e ancora una volta parlo non per superstizione o per fede ma per esperienza diretta. Sono stato testimone in prima persona, e in parte anche vittima, di episodi misteriosi e inquietanti, dei quali nessuno, né studioso scientifico e neppure esoterista è stato in grado di venire a capo. Si tratta di un aspetto della conoscenza che mi interessa molto e mi affascina: tutto ciò che sfugge ad una comprensione razionale è per me motivo di estremo interesse, non tanto per spiegarlo quanto per capirne le motivazioni per cui si manifesta: quando, a chi, dove, e se ci sono legami o possibilità di interazione con la vita terrena. È sempre stato per me motivo di forte ispirazione il labile confine, che spesso permette il passaggio dall’uno all’altro, fra naturale e sovrannaturale, fra ragione e follia, fra scienza e fede. Se qualcuno mi chiede se credo nei fantasmi rispondo di sì, esattamente come credo a quello che mi dice un chimico sulle reazioni dei vari elementi, pur senza capirci nulla, o come credo ad un astrofisico che mi descrive Plutone, anche se io personalmente non l’ho mai visto e non posso saperne nulla che non mi sia stato insegnato da lui. Al di là di ciò che conosciamo direttamente per averlo sperimentato su di noi, tutta la nostra vita è un unico, grande atto di fede in qualcosa o qualcuno.
C’è un messaggio che vuole che arrivi al lettore?
Non inizio mai a scrivere con l’idea di un messaggio o una tesi da dimostrare e convincere il lettore, ma durante la stesura e il formarsi progressivo delle vicende accessorie accanto alla principale e della delineazione dei caratteri, emerge sempre qualcosa che poi diventa il filo rosso attorno al quale si sviluppa tutto il significato della storia. In questo caso direi che l’elemento essenziale è l’affermazione dell’io e della propria libertà di fronte alle regole imposte dalle usanze, dalla tradizione, dalle istituzioni: il protagonista soffre terribilmente la costrizione della disciplina e delle regole e vorrebbe poter esprimere la propria personalità, interiorità, fisicità in piena libertà, vicino alla natura, senza timori di conseguenze e giudizi. Il messaggio che il romanzo convoglia verso il lettore può essere dunque proprio questa ricerca incessante, ossessiva della libertà individuale di esprimere ciò che si è, lottando il più possibile contro ciò che la opprime ma anche contro i conniventi che dovrebbero ambire alla stessa libertà e invece sono servi di chi la nega (e in tal senso il romanzo potrebbe trasmettere anche un messaggio di amara e brutale attualità) e contro sé stesso e le proprie paure e insicurezze, contro il timore di non essere all’altezza di quella libertà e quindi optare per una facile rinuncia ad essa in nome di un mediocre conformismo, e infine contro il destino, quel dio sconosciuto di cui ignoriamo i disegni ma che, proprio per questo, ci sprona a combattere per la nostra libertà salvo poi portarci dove vuole la sua volontà.
Nei suoi libri ricorre spesso questa battaglia interiore che vivono i suoi protagonisti, in fondo l’essere umano si alimenta tra passioni e tormento, quanto c’è di biografico nella sua scrittura
Tantissimo. Amo scrivere di ciò che conosco e posso affermare con una certa sicurezza che, almeno in piccola parte, conosco me stesso, e questa parte di mia conoscenza passa sempre ora nell’uno ora nell’altro personaggio, le cui reazioni a volte sono simili alle mie, così come le loro emozioni: se in “Ascesa al regno degli immortali” il paragone poteva essere diretto, essendo il protagonista un musicista, in quest’ultima opera lo è in modo diverso: c’è molto di me in Ruggero ma anche in Ravignani, e qualcosa anche distribuito tra gli altri: il rispetto delle regole del maresciallo Belmonte, la bontà e umanità del maresciallo Elia e così in altri. Certamente passioni e tormento sono il fondamento della vita tanto quanto dell’arte e della scrittura e Ruggero è un ragazzo tanto tormentato quanto appassionato, talora al limite della follia, e sempre a causa di un conflitto interiore proprio come in Anton in “Ascesa”. In tal senso mi ricorda molto da vicino la mia adolescenza e i conflitti e le delusioni di cui fu costellata, con la differenza che le gabbie e le regole che mi tenevano prigioniero me le ero imposte da solo e di fronte alla libertà cui anelavo ero io stesso a tenermi rinchiuso.
Siamo tutte vittime sacrificali sull’altare di un dio sconosciuto che tira le fila del nostro destino? Oppure abbiamo la possibilità di combattere per la nostra felicità? Essere noi padroni del nostro destino?
Da ragazzo pensavo di conquistare il mondo, di fare una carriera musicale ai vertici internazionali e che il mondo aspettasse solo me per salutarmi quale astro nascente della musica. La delusione dello scontro con la realtà ha mitigato molto questi miei bollori finché, ad un certo momento, sono diventato fatalista, convinto che ciò che accade deve accadere proprio in quel momento e che non sempre, anzi quasi mai, ci è dato conoscerne i motivi. È vero però, e lo affermo fortemente, che, se mi scoprissero una grave patologia letale, ben lungi dall’accettare con rassegnazione un destino così ingrato, lotterei con le unghie, con i denti e con tutto ciò che sono fino all’ultimo respiro per vincere la malattia. Quindi a nessuno è impedito lottare per la propria felicità, e infatti Ruggero, dopo tante incertezze e indecisioni, spinto anche dalle circostanze favorevoli, prende finalmente in mano la sua vita e inizia la lotta per riconquistare quell’amore che crede perduto e per diventare uomo. Però il romanzo ci dice che, nonostante le lotte e le aspirazioni, i desideri e la volontà umana, su tutto sovrintende un fato ignoto, un dio che richiede costantemente sacrifici senza che ci sia concessa la conoscenza di una ragione che giustifichi e spieghi tutto questo. Si tratta di un romanzo che potremmo assegnare alla categoria del romanzo di formazione e psicologico ma che lancia anche il messaggio della fragile impotenza umana di fronte ad un meccanismo più grande e incomprensibile, che alcuni chiamano cosmo, altri destino, altri ancora Dio, e la cui volontà imperscrutabile si abbatte su tutti, colpevoli e innocenti, senza distinzione, in una rappresentazione forte e decisa dell’uguaglianza nel dolore e nella disgrazia e nelle fine anche della memoria: la storia si chiude con una sorta di “Damnatio memoriae” di tutto ciò che è stato, così che sarà dimenticata persino la volontà del dio sconosciuto cha ha preteso le vittime sul suo altare.