Ius soli : La cittadinanza non è una concessione è un diritto



Il 15 maggio, la Corte Suprema degli Stati Uniti affronterà un nodo che affonda le radici nell’identità stessa del Paese: il diritto alla cittadinanza per nascita, lo ius soli.

Al centro del dibattito c’è l’ordine esecutivo voluto dal presidente Trump un provvedimento che intende negare la cittadinanza ai figli di migranti nati sul suolo americano. È una sfida costituzionale, certo. Ma è soprattutto una sfida morale.

Non è solo la legalità di un emendamento a essere in discussione. È il volto stesso dell’America. Un’America che, se dovesse voltare le spalle a uno dei suoi principi fondativi, finirebbe per tradire la propria promessa: essere una terra dove l’appartenenza non si eredita, ma si costruisce.

Lo ius soli, negli Stati Uniti, è più di una norma: è il lascito di una stagione di emancipazione. Fu sancito nel 1868, all’indomani della Guerra Civile, con il XIV Emendamento. Un gesto di riparazione verso gli ex schiavi afroamericani, ai quali veniva riconosciuta per la prima volta, formalmente, la cittadinanza.

Nel 1898 la Corte Suprema, nel celebre caso Wong Kim Ark, ribadì con forza il principio: chi nasce in territorio statunitense è americano, punto. Non importano lo status, i documenti, le origini dei genitori. Conta il luogo in cui si nasce, e il futuro che lì si può costruire.

Ma ora quella certezza vacilla. L’ordine di Trump, congelato da vari tribunali e ora al vaglio della Corte Suprema, mira a riscrivere ciò che per oltre un secolo è stato dato per acquisito. Lo fa con una visione esclusiva e selettiva dell’identità nazionale: un ritorno all’appartenenza come privilegio, non come diritto.

È difficile non leggere questa vicenda con uno sguardo europeo, anzi italiano. Perché mentre negli Stati Uniti si combatte per conservare un diritto storico, in Italia quella battaglia è ancora da vincere.

Nel nostro Paese, migliaia di giovani — nati, cresciuti, educati in Italia — vivono una sorta di invisibilità istituzionale. Parlano italiano, sognano in italiano, tifano per la Nazionale, ma non sono cittadini. Non per scelta, ma per una legge che ancora oggi lega la cittadinanza al sangue, non alla terra.

Sono i cosiddetti “italiani senza cittadinanza”. Generazioni che l’Italia guarda, ma non riconosce. Che esistono, ma non appartengono. Che vivono qui, ma sono trattati come ospiti.

Riconoscere la cittadinanza a chi nasce in un Paese non è un atto di generosità. È un dovere civile. Significa affermare che la partecipazione alla vita collettiva non dipende da un atto notarile o da un confine, ma dalla realtà vissuta. Dalla quotidianità condivisa, dalla scuola, dal lavoro, dalle relazioni.

Negare la cittadinanza, invece, è un gesto di esclusione. Vuol dire dire a una parte della società: “Tu non sei dei nostri”. È creare cittadini di serie B. È legittimare l’idea che l’identità sia eredità, e non progetto.

Alla fine, la vera domanda è questa: chi decide chi siamo? Un documento, un confine, una legge? O, piuttosto, la vita che conduciamo, la comunità a cui partecipiamo, il luogo che scegliamo come casa?

L’udienza del 15 maggio sarà un momento cruciale per gli Stati Uniti. Ma il suo eco attraversa l’Atlantico. Perché in gioco c’è qualcosa che riguarda ogni democrazia: la capacità di includere, di riconoscere l’altro parte della società.

Mentre tutto si muove, cambia, migra, l’identità non può restare ferma. Deve camminare insieme alle persone. E la cittadinanza, oggi più che mai, non può essere un privilegio per pochi. Deve essere un diritto.