Un film originale e di rara profondità che aiuta a comprendere la figura della donna e il senso stesso di “seconde possibilità”. Da successo di critica e pubblico è diventato un film da dimenticare. La colpa? Siamo finiti in un mondo che non conosce pil perdono
La stagione cinematografica che si è appena conclusa con la contestatissima cerimonia degli Oscar – dove Anora ha sbancato tutti i pronostici – ha portato dietro di sé una marea di polemiche sulla scelta dei film vincitori e ha innescato una riflessione intensa e profonda sullo stato tesso della settimana arte. Del film sulla “novella” e moderna Pretty Woman ci siamo già espressi – sia qui che qui ne abbiamo parlato -, come abbiamo lasciato il nostro parere sul quel piccolo fenomeno di The Substance, ma nonostante ci siano stati film di tutto rispetto come Conclave e A complete Unknown, uno in particolare non ha avuto i riconoscimenti che meritava, vittima una campagna d’odio ingiustificata e per nulla condivisibile. Stiamo parlando di Emila Perez. Il film che ha portato sul grande schermo, per la prima volta nella storia, un’attrice transgender in un ruolo da protagonista, avrebbe dovuto brillare nelle stelle del cinema ma così non è stato. Premiato al Festival del cinema di Cannes con 9 minuti di applausi, nella stagione degli award ha convinto il pubblico e critica vincendo premi ambiti tra i Golden Globe, i César, i BAFTA, e ottenendo ben 13 candidature agli Oscar, sia come miglior film che come miglior film straniero. Un successo meritato perché, a tutti gli effetti, Emilia Perez è per davvero un film unico nel suo genere anche se gioca molto bene con i cliché di un dramma al femminile. Ma, dicevamo, una campagna d’odio montata sui social e le attuali politiche restrittive dell’amministrazione Trump sulla comunità LGBTQIA+ ha impedito al film di emergere come avrebbe dovuto. Una sconfitta non solo per il lavoro del regista ma che si è abbattuta anche su tutta l’industria cinematografica.
Emila Perez, il narco trafficante che vuole diventare una donna
Ambientato a Città del Messico, la storia si focalizza sulle vicissitudini dell’avvocato Rita Castro (interpretata da Zoe Saldana, vincitrice come Miglior attrice non protagonista). Ha una vita vuota e spenta, tanto non credere più nemmeno nel senso di giustizia che dovrebbe regalare la sua professione. Fino a quando riceve una telefonata anonima e diventa la confidente di Juan del Monte, boss del cartello messicano. L’uomo vuole cambiare vita e per farlo vuole cambiare sesso, abbracciando così il suo vero “io”. Rita lo aiuta nell’impresa. I due si separano ma anni dopo, Juan – ora si fa chiamare Emilia Perez – contatta di nuovo l’avvocato con una richiesta: trovare la sua famiglia. Le due donne, che si incontrano in una realtà ben diversa, cominciano a lavorare insieme a un progetto benefico a favore di tutte le vittime uccise dai narcos, vittime che sono state uccise dallo stesso Juan. Un modo per ripulire la sua coscienza e dare a Rita quel sentimento di giustizialismo che ha sempre amato. Il passato, però, torna a bussare alla porta di Emilia e la donna si trova di fronte a una scelta: perdere se stessa oppure convivere con i suoi stessi demoni?

Un po’ musical un po’ drama al femminile: perché il film è una vera perla
Senza togliere nulla agli altri film che erano in lista come miglior lungometraggio, Emila Perez era (forse) il più originale di tutti. Non solo perché mai fino ad ora si era visto un narcos, machista e violento abbracciare la sua parte femminile con una tale potenza, ma dall’altra mai si era vista una donna che ha anteposto se stessa pur di fare del bene e risolvere i problemi di un mondo alla completa deriva. Il film ha raccontato questo binomio con i toni di un musical disincantato, fuori da tutte le logiche di spettacolo e fuori da tutti le “spettacolarizzazioni” di un musical lustrini e paillettes; e ha raccontato attraverso un drama al femminile forte e potente, che non è mai sceso a compressi e che si è preso molto sul serio, la figura di una donna moderna. Questo mix e insieme a una storia accattivante ha permesso alla pellicola di fotografare il lato oscuro di oggi, tra dei e miti della contemporaneità, e farlo con uno sguardo schietto e sincero, senza scendere a compromessi.
L’odio come nuova forma di diffamazione
L’idea di candidare agli Oscar la prima donna transgender, forse, è arrivata nel momento sbagliato. In un mondo che sta virando verso la destra più estrema, poco inclusiva e anti-diritti, non ha dato agio a Emilia Perez di emergere come avrebbe dovuto. Il film è stato travolto dall’odio, non solo dai leoni da tastiera, ma la stampa stessa non ha accolto con benevolenza il film quando – chissà per quale assurdo motivo – sono trapelati alcuni messaggi razzisti che l’attrice protagonista avrebbe diffuso sui social anni a dietro e prima del suo successo. Questi messaggi poi sono stati un boomerang. Karla Guascon è diventata il nuovo nemico da combattere quando, in realtà, nessuno si è fermato per un attimo a pensare: è giusto combattere l’odio con altro odio quando c’è un film che ti aiuta a comprendere il senso delle seconde possibilità?